sabato 20 luglio 2013

cherasma

senti un po', ti volevo dire una cosa. sì proprio a te che passi di qui, con le mani nel cappotto: lo so che fa freddo e vuoi andare a casa, ma rimani un attimo qui con me, dai. il prossimo tram parte tra dieci minuti e stai tranquillo che a casa ci arrivi lo stesso. tanto io, se tu stai qua zitto e buono, tra tre minuti ho bello che finito. ma 'sta cosa te la voglio dire perché ce l'ho sulla punta della lingua da troppo tempo.
te tu lo sai che la punta della lingua non è mica un posto comodo? le parole scivolano facile fuori di lì, ci vuole niente a farle cascare dalla punta della lingua alle labbra, e io stasera 'ste parole dalla lingua mia ho proprio voglia di farle cascare nelle orecchie tue.
ebbene caro mio che passi di qui, io indosso una maschera.
bianca, liscia, neutra.
ci ha due fori negli occhi la maschera mia che mi fanno guardare sempre solo avanti e a lato non ci vedo mica bene sai? e sotto o in alto nemmeno a parlarne.
ci sono due buchi più sotto nella maschera mia che servono per tirarci in dentro e in fuori l'aria.
quando me la sono messa pensavo che ci si respirasse bene e a pieni polmoni. invece...invece non avevo mica capito, ecco. ci tiri un po' in dentro e un po' infuori l'aria, e questo è tutto. sono piccoli quei buchi e non bastano, mi manca sempre un po' il fiato sai?
e poi ho la bocca, posso dire delle parole se voglio.
delle parole come quelle che sto dicendo adesso a te, ma non è proprio come parlare no? ad esempio, adesso se sorrido te ne accorgi? e se digrigno i denti tu lo vedi? neanche la linguaccia ti posso fare tanto è stretta 'sta bocca. neanche un bacio alla mia fidanzata riesco a dare.
ma ti pare una cosa possibile? no, eh?
e invece sì! sì è possibile, guarda me. tocca il mio viso. e senti la mia maschera. accarezzami le guance e accarezzi la mia maschera.
io quando l'ho comprata pensavo fosse tutta un'altra cosa, sai? pensavo fosse un bel viso, elegante, puro, buono per ogni occasione.
ma sai che fatica avere sempre la faccia giusta per ogni occasione? io pensavo che avevo risolto tutti i problemi miei. "nasce un figlio? vinco al totocalcio? mi muore la zia di Como?" e che faccia faccio ora? ed ecco che ...taac! esce fuori la maschera. ed è tutto liscio, tutto bianco, tutto neutro.
e adesso? beh, adesso è un casino. "perché?" dici tu. mah sai, penso solo che mi sono stancato, tutto qua. puo' essere solo che sono stanco di 'sta roba? sempre uguale, sempre liscia, sempre bianca, sempre neutra?
solo il poker mi è rimasto di buono. nessuno si rende conto di quando bluffo. gli amici dicono sempre "naaaa io con te non ci gioco che mica sono scemo! te tu sei un giocatore nato, e ci hai la faccia di bronzo..."
"ma non è bronzo gli vorrei dire è una MASCHERA E' UNA MASCHERA"
va be', comunque...
se mai un giorno, ci volessi provare, sappi che non si guadagna male con il poker...
dicevo così per dire, eh, io lo so che hai già un bel lavoro: onesto e ben pagato, non volevo mica offendere.
e scusa sai, se ti ho fatto perdere il tram, mi spiace. adesso vai a casa va', che ti aspettano: la cena sarà pronta, la tv accesa e la moglie impaziente.
io sto qua, ancora un po'.



giovedì 27 giugno 2013

a me gli occhi

I nostri occhi, non sempre dicono la verità. Forse non la dicono mai, principalmente perché i nostri occhi non parlano. Quella che parla è la bocca .
allora aspetta, stai buono qui un attimino che prendo fiato e ricomincio.

I nostri occhi, non sempre vedono la verità. Principalmente, non vedono la verità su noi stessi. i nostri occhi del piffero: che cacchio ce li abbiamo a fare?
Sai, alle volte, io penso che avremmo bisogno di occhiali per guardarci meglio. di occhiali per guardare meglio la verità di noi stessi. e a tal proposito ti volevo proporre un esperimento.
iniziamo così: chiudili proprio questi occhi che è meglio.
pensa.
pensa a quelle giornate grigie, pensa al traffico, pensa a tutti che urlano in ufficio, e tu in mezzo a loro ad urlare, pensa alla pausa pranzo della mensa con quei vapori di cucinato che sembrano pennacchi di smog o di nebbia, pensa al caffè della macchinetta che non sa di niente.
ma, sai, non è poi  mica vero. quel caffè sa di qualcosa. ma fosse insapore, forse sarebbe meglio.
poi pensa a te che pensi a te stesso.
te stesso ingolfato, non importa da cosa. forse il lavoro, forse i figli, forse il mutuo, i tuoi genitori, i genitori di tua moglie, ingolfato dalle tasse, dall'amante, dall'amante di tuo marito. o forse da tutte queste cose insieme, o forse no. può darsi che ad ingolfarti sia semplicemente una digestione lenta, una costipazione, una malinconia al tramonto o ancora mille altre cose che non so. non che abbia poi tutta questa fantasia.
ma rimani qua con me un attimo, "ingolfato". pieno di cose, di nozioni, di treni da prendere, di casini, di donne, di situazioni ambigue, di letti sfatti, di macchine in doppia fila che ti chiudono, di chili di troppo, dolori alla schiena.
rimani solo un attimo qui con te, ancora un altro secondo. appesantito.

e adesso apri gli occhi, guardati.
Guarda le macchie di vitiligine sulle mani o le unghie mangiucchiate o lo smalto screpolato, guarda i vestiti che sono troppo stretti o non sono abbastanza alla moda. fai girare gli occhi sulle scarpe consumate. se vuoi, invece, gli occhi non aprirli e fatti un bel giro sul tuo cranio pelato o sui capelli bisunti o con le doppie punte o con la tinta da rifare che ormai ce li hai bicolore. fatti un giro sulla barba di tre giorni, sui punti neri del viso, tra i denti storti o gialli.
fai come vuoi.
ma adesso finalmente e senza appello stavolta, guardati. come ti senti? con che occhi ti stai guardando? chi sei ora davanti ai tuoi stessi occhi?
riesci a tollerare la tua presenza?

non dirmelo ché l'esperimento non è ancora finito.
Piuttosto, andiamo avanti.

Respira un pò e lascia andare i tuoi occhi pesanti e giudici. Lascia andare il peso. non c'è più. Bianco, nero profondo, grigio di indecisione, pensa ad un colore che ti riporti alla neutralità. Sei tu qui, ancora un pò con me. io e te.
Adesso fammi un favore, guardati con altri occhi. occhi di altri. altri che ti hanno guardato in vita tua. occhi che non siano i tuoi. non occhi "nuovi", con quelli ci hanno già scritto troppe poesie, solo occhi "diversi".
Per esempio guarda alla tua vita con gli occhi di tua madre o di tuo padre. Qugli occhi che sorridono ancora oggi quando fanno da cornice ad una bocca che dice "Sa signora, io sono così fortunata: mio figlio è un famoso dottore". o forse avvocato, o ingegnere o salumiere o filibustiere o finanziere o figlio di puttana. a quegli occhi non interessa. riesci a farli tuoi gli occhi di chi non è interessato a nulla se non te stesso e basta? così come sei e basta. sono gli occhi di una madre.
Sì lo so: "la vita è una merda" e tu non ce l'hai avuta una mamma che ti voleva bene. o sei orfano. oppure tante cose, ma sta di fatto che non ti sei riuscito ad immedesimare più di tanto e il colpo di scena non mi è riuscito.
ma io ho altri conigli nel cappello, non ti credere, sono qui apposta e oggi non ti mollo

Fai così gli occhi non li aprire proprio più, fatti un viaggietto con le palpebre sugli occhi. guido io.

pensa a tua sorella o a tuo fratello. pensa a quando dicevano agli amici nei vicoletti delle strade dove sei cresciuto "smettila di darmi fastidio sennò chiamo a mio fratello grande e ti fa vedere lui" anche una sorella grande fa paura a quell'età, stai tranquillo. oppure, pensa a tua sorella grande che stava di là in camera con le amiche a parlare di fidanzati e a scrivere lunghe lettere con la carta profumata e poi ad un certo punto veniva in camera da te e ti stringeva e ti diceva "ma che bello il mio fratellino". Ti stringeva proprio forte, vero? pensa ai suoi occhi chiusi mentre ti stringeva. chissà cosa guardavano, eh? chissà come guardavano te.
Vedi che il discorso vale anche se avevi un fratello e qui lo voglio fare solo per completezza.

Respira solo un paio di volte, lento lento. pensa a tuo fratello, che ti riempiva di mazzate da piccoli, pensa ai suoi soprusi alle sue piccole angherie. e pensa poi al giorno che ti ha accompagnato all'altare perché papà non c'era più, o più semplicemente pensa a quel giorno che eravate a fare le guide in macchine e tu finalmente tra mille sudori sei riuscito a mettere la quinta e allora sghignazzavi ancora un pò nervoso e lui si è preso un secondo, un attimo piccolo, per guardarti da sotto i suoi baffi ben più folti dei tuoi. che sgaurdo era? ammirazione? rispetto? gioia?
Lo hai mai avuto quello sguardo per te nei tuoi occhi?

e se hai avuto grossi problemi in famiglia e non hai avuto occhi di madre e padre, e fratelli e sorelle erano ciechi o non c'erano...beh, forse hai ragione a lamentarti, perché molte condanne sono solo l'effetto di sentenze emesse in quel nucleo pazzo e maledetto che è la famiglia. ma non lamentarti in eterno, perchè ti faccio fare un altre esperimento.

pensa ancora, lo so che stai facendo un pò fatica stasera qua con me. ti chiedo di chiudere gli occhi, di riaprirli, di pensare. ma tu fallo, tanto guarda che abbiamo quasi finito.
allora pensa a Dio.
pensa a dio e mettici una "d" maiuscola, minuscola come ti pare. pensa a dio che è nei cieli, pensa a Dio che è nel centro della terra, Dio che è dappertutto, il cerchio il cui centro è in ogni luogo e la circonferenza da nessuna parte (e questa è un pò più difficile, eh?). se vuoi pensa alla natura oppure, se ti va, pensa ad una fiamma inestinguibile che tu ti porti nel cuore insieme a tutti gli altri uomini e donne di questo pianeta. Una fiamma che brucia dentro e arde di speranza, una fiamma o anche solo una forza -per carità!- o una parte più pura e immacolata di te stesso, che non cede agli inganni dei tuoi occhi. Che non crede a quello che di brutto tu credi di te stesso. una parte che non si arrende mai. Che ritorna alla carica anche dopo l'ennesima sconfitta. Una parte che è come il tuo cane: fedele, senza un vero perché. Di sicuro non solo perché gli dai da mangiare e lo porti fuori.
Guardati con gli occhi di quella parte che sei tu stesso, guardati con la forza del mare che porti dentro, con l'ardore della fiamma, la furia dell'uragano che continuamente esplode dentro te e che adesso io e te, per semplicità, conveniamo di chiamare dio.
Guardati con gli occhi di chi dentro te non ha mai paura. di chi sa solo ricominciare e mai smettere, di chi vuole tenere la testa alta e fiera tra la gente senza negare a nessuno un sorriso o una carezza.
guardati attraverso quella parte, come puoi non amarti?

Ecco adesso fai come vuoi, apri gli occhi oppure chiudili o incrociali perfino. fai come vuoi, l'esperimento è finito.
Grazie.

come dici, scusa? sì ho capito, ho capito, non ti scaldare. "non credi in dio": lettera minuscola o maiuscola chissenefrega. Uragani o tuoni o lampi...  importa una sega, ho capito.
beh, amico che il viaggio ti sia comunque lieve in questa vita, ma senza conoscere gli occhi di tua madre, dei tuoi fratelli e rifiutando gli occhi di dio mi sa che saranno proprio tutti cazzi tuoi. e non dolci.

martedì 25 giugno 2013

il sesso non è più come quando c'eri tu

il sesso non è più
come quando c'eri tu

annuso le tue mutandine rosa
penso solo ad una cosa
nelle guance di un sol colpo avvampo
se dei tuoi vestiti abbasso la lampo

il sesso non è più
come quando c'eri tu

sono arrugginite le manette
sono scaduti baby oil e altri unguenti
nella stanza non sento più strazi e lamenti
tra le pareti non risuonano più le mie risate maledette
il sesso non è più

come quando c'eri tu
stamane nel letto solitario mi son svegliato
inutile dirti che ti ho sognato
ma di certo quel che è peggio -come vedi-
è che continuo a sognarti pur stando in piedi

il sesso non è più
come quando c'eri tu
la sera è un lento calvario
che consumo tra facebook e le pagine del diario
su facebook leggo i tuoi aggiornamenti
sul diario scrivo i miei tormenti

il sesso non è più
come quando c'eri tu

questa quartina trista e ritmata
dedicata è al corpo della mia amata
pelle bianca e vellutata
faccia sorridente, smorfia sfrontata


il sesso non è più
come quando c'eri tu

gambe sinuose e lunghe
denti bianchi e splendenti
occhi che finalmente ridono contenti
contenti perchè si sono accorti che

di certo il sesso meglio è
da quando non sto più con te

lunedì 24 giugno 2013

Pierpaolo (bozzetto di un uomo)

Il giorno dopo è sabato. Arianna deve andare a scuola anche oggi, mentre Pierpaolo è libero da impegni con lo studio. 
-Amore, vai tu a preparare il caffè?
-no tesò mi scoccio, sono ancora stanco. Vai tu
-e no, io devo lavorare, tu oggi sei a casa.
-si ma io ieri ti ho fatto un massaggio ai piedi.
Arianna si toglie le coperte di dosso con un gesto appena plateale che intende sottolineare come la prospettiva di preparare il caffè, portarlo a letto a Pierpaolo e poi andare a lavorare non sia molto esaltante.

-ecco qua il caffè dell’avvocato
-grazie amore sei proprio un tesoro
-tesoro un corno. Senti io adesso mi preparo e poi me ne vado ci vediamo a pranzo. Non ti dimenticare che alle dieci hai allenamento.
-si, ciao
-ciao
Pierpaolo è stato un discreto giocatore di calcio. Quando era ancora nell’arma faceva parte della squadra di calcio della radiomobile. Lì, di norma, prestavano servizio i ragazzi più giovani ed in forma. La loro squadra era il tormento di tutte le altre.
Da quando lavora come praticante, Pierpaolo non è riuscito a trovare una squadra che facesse al caso suo. I vecchi colleghi avevano orari diversi dai suoi e difficilmente riusciva a combinare con loro. 
Chissà come è uscito fuori il discorso  con Gioacchino, il prete della sua parrocchia.
-pierpà, ma a pallone ci giochi più?
-eh Gioacchino, ma come faccio? Con lo studio da seguire e Arianna. Mica la posso lasciare a casa sempre sola per un motivo o per un altro, con lei che paga tutti i conti.
-hai ragione. Però mi dispiace perché so che ti divertivi con il pallone. 
-eh Gioacchino, quella è pure l’età che avanza: non sono più un ragazzino.
-ma non dire fesserie adesso. Piuttosto, noi qui avevamo una mezza idea di mettere su una squadretta per i ragazzi del quartiere. Perché non vieni ad allenarla tu?
-io e che ne so di come si allena una squadra?
-guarda che mica viene a giocare Gullit qua. Ai ragazzi basta uno che sappia come giri la palla, un paio di schemi li conosci pure tu, no?
-beh un paio, sì. Mi ricordo quelli del mister di quando giocavo in eccellenza.
-e allora! Non farti pregare, vieni ad allenare questi ragazzini. Che più che altro hanno bisogno di una persona seria ed equilibrata con cui passare un po’ di tempo. Un modello.
-mi basterà allenarli un po’. Per i modelli si rivolgano a te che è meglio.
-amen.

E così Pierpaolo è diventato l’allenatore della squadra under 18 del quartiere. Ci sono anche un paio di fuoriquota: ragazzi più grandi, ma nessuno al di sopra dei 21.
Non credeva che allenarli sarebbe stato così divertente.

La sera precedente al primo allenamento era rimasto a parlare con arianna un po’ più del solito. Era nervoso Pierpaolo –e se non li so allenare? Se non gli sono simpatico? Se non so gestire lo spogliaotoio?
A sentire la parola ‘spogliatoio’ Arianna quasi si strozzava dalle risate –ma se la parrocchia non ce l’ha nememeno lo spogliatoio, che ti vuoi gestire?
-ma annina “gestire lo spogliatoio” è una frase fatta per dire…
-lo so che vuol dire. E credimi non c’è nessuno meglio di te che possa gestire uno spogliatoio. Soprattutto se lo spogliatoio non c’è.
Quest’ultima frase la fece ridere ancora di più. Pierpaolo non trovava proprio nulla di comico.
E veramente il giorno dopo non ci fu nulla di comico nell’allenamento. I ragazzi lo stavano a sentire svogliati, e si passavano il pallone anche quando Pierpaolo gli diceva di stare zitti e fermi. E poi c’era la questione razziale da chiarire. 
Nella loro città, quello era il quartiere degli emigranti. In uno stesso palazzo, magari su uno stesso pianerottolo ti potevi trovare famiglie arabe e coreane, nigeriani e polacchi. Non sempre l’integrazione era semplice.
Quegli stessi conflitti, Pierpaolo, se li trovò spesso in campo da gestire durante l’allenamento. 
Non emergevano subito, chiaro. Il primo quarto d’ora passava di solito tranquillo. Poi quando si iniziava a fare una partitella, c’era sempre qualcuno che prendeva con più facilità una caviglia che la palla e così partivano gli insulti, e dopo gli insulti le minacce, e dopo le minacce volavano le spinte, le squadre che si riaggregavano sulla base dei colori della pelle invece che delle magliette. Il pallone che rotolava solitario al di fuori del campo.

Pierpaolo in quei momenti non sapeva che fare. Per prima cosa era sbigottito da quello che sentiva dire ai ragazzi, dalle offese che si sputavano in faccia senza pensarci una volta, dall’odio, dal livore che si scaricavano a vicenda e che non sembrava possibile potessero covare gli uni con gli altri solo per via della loro razza.

La famiglia Signorini (bozzetto)

Marina:  bambina sveglia e vivace, sarà la testa di ponte tra le due famiglie. Imparerà a giocare a calcio da Augusto.
papà: signore borghese. Ama leggere il giornale la sera  prima e dopo cena. Non gli interessa il calcio. È un professore. 
Nonna: hippy della casa, sorridente. Buona.
Mamma: sempre un po’ diffidente. Molto cattolica. Fondamentalmente buona ma frenata dal sentire comune
Augusto Signorini: calciatore della Juve che si trasferisce nella villetta in collina a fianco della famiglia di Marina. Augusto si è fatto da sé. È un ragazzo semplice, buono. Non perde mai la calma e non crede di essere una star. 
Carla e Silvana: le figlie di Augusto. Serie compite, consapevoli del ruolo del padre. Lo accettano con docilità.
Sonia Signorini: la moglie di Augusto, non c’è nel trasloco.

La famiglia signorini si trasferisce accanto alla villetta di Marina. Marina all’inizio non sa chi sia signorini. Carla e Marina hanno la stessa età. Silvana un anno in meno. Carla frequenta la stessa scuola di Marina.
Così le bambine iniziano a vedersi dopo scuola. Un pomeriggio Augusto si offre di giocare un po’ a calcio con loro. Quando torna a casa, la mamma rimane un po’ meravigliata ed interdetta che la figlia stia imparando a tirare calci ad un pallone.

Qualche giorno dopo Signorini e le figlie vanno in giro in centro. Signorini firma gli autografi, marina torna a casa e racconta il fatto concludendo con “ha detto Signorini che non c’è problema perché finché firma gli autografi firma anche gli assegni”. La nonna si fa un sacco di risate.

Se io dovessi morire stanotte

se io dovessi morire stanotte.

se io dovessi morire stanotte non mi trovereste nel mio talamo nunziale. sdraiato mollemente e senza forze. con un filo di voce a dirvi 
"muoio felice perché ho vissuto una vita lunga e piena. muoio con il sorriso sulle labbra che hanno assaporato tutti i giorni vissuti. ed ora capisco il senso e mi è tutto chiaro e vi posso dire in serenità e gioia <<amici miei siate felici perché la vita è una sola e seguite il mio saggio esempio perché io so, io ho capito, io ho percepito il grande e pieno valore che alberga in ognuno di noi ed in ogni attimo mi sono dedicato a farlo emergere e vibrare in me ed in ognuno di voi>>"

se io dovessi morire stanotte, mi vedreste girare in tondo per tutte le stanze di tutte le case di ogni dannata città dove ho vissuto. sputacchiando fiele e rantolando. appoggiando le mani lerce sulle pareti annerite dal fumo. dall'acredine dei giorni andati.
mi vedreste setacciare gli armadi e i cassetti, frugare tra le tasche di pantaloni che non mi vanno più tanto sono grasso. rovesciare i cappeli ed i libri che non leggo più da tempo. strappare tutti i nastri delle cassette, spezzare i cd, bucare gli schermi catodici e quelli piatti. perché ancora non l'ho trovato un senso. un luogo io non l'ho trovato.
e così come ho speso i miei giorni spenderò la mia morte. cercando di posticiparla, di offenderla, di evitarla. "dopo" c'è sempre un "dopo" quando il serbatoio della vita è pieno e c'è un "dopo" anche quando è a metà e ad un quarto. e poi all'improvviso non c'è più "niente", ogni metro succhia un altro po' di benzina. e di benzina non c'è ne è più.
griderei che sono stato fregato. griderei che non ne valeva la pena fare tutto e farlo bene e poi farlo ancora meglio. 
mi accascerei in un angolo a dire " non ho scopato abbastanza, non ho visto abbastanza mondo. ho comprato la tv satellitare e forse ho visto solo metà dei canali"
sarei sopraffatto dall'idea di non aver avuto abbastanza amici, di aver lasciato andare quelli che avevo trovato. sentirei una ruga sottile eppure profonda, qui, dietro la nuca. la ruga di tutti i sì non detti ma eseguiti con il capo. la ruga di tutte le volte che ho abbassato la testa.
verrebbe qualcuno a consolarmi, ma sarebbe come voler riempire un vaso bucato.
questo sono stato io nella mia vita: un vaso che non si riempie mai. non ho tracimato mai. non mi è bastato mai. le donne, i soldi il vino, l'amore il potere racimolato, le macchine guidate. i tramonti, le albe. i mattini e gli uccelli nel cielo sempre troppo pochi. sempre un po' in meno di quello che volevo o immaginavo.
mi alzerei dall'angolo, quest' angolo stornzissimo dove sono ora e direi solo parole. niente più frasi
"cazzo, merda, dolore, rancore, timidezza, rabbia, incapace, molle, privo, stolto, e mai mai nemmeno un secondo solo vivo"

se io dovessi morire stanotte, ma solo i saggi e gli elefanti sanno quando devono davvero morire. alle volte si apre uno squarcio nel cielo di carta. un amico muore, rischiate un incidente mortale per mandare una mail al capo mentre siete in autostrada. a tuo padre viene un infarto che non lo ammazza. e tutti in famiglia tirano un respiro un po' più forte. e tu sai, capisci al volo che la vita è fragile e debole e flebile e labile. che la vita è una briciola che ti hanno dato per sbaglio, una briciola che è caduta dal ricco piatto di chissà quale ricco epulone. la vita è una mollica di pane con cui ti hanno fatto giocare e che ora è secca e dura e rafferma. e non serve più.
ma così come si è aperto in un attimo, il cielo si richiude. basta una rata dimenticata del condominio. basta pensare a come diversificare i propri investimenti in vista della prossima crisi, pensare a come superare il prossimo colloquio sennò quelli del mutuo ti mangiano vivo e con il cazzo che poi ci arrivi a fine mese. 
basta una cosa di queste e ritorni a capo.qualcuno, tu stesso, voi stessi, io stesso, mi metto di buona lena a  rattoppare il buco. ed il cielo di carta è di nuovo lì, in alto, lontano e azzurro e splendido.
certi giorni può capitare che qualcuno dica "veh, cos'è quello? forse che qualcuno ha rattoppato per caso il cielo?"
" ma no non è possibile, il cielo è intero. la vita è intera. i giorni sono interi e non si aprono non si sfaldano. non si squartano. ma cosa dico mai?"
e tutto ritorna muto. 
è muto l'abitacolo dell'auto quando torni a casa dal lavoro. è muta tua moglie ed i tuoi figli giocano muti nel soggiorno che ancora devi finire di pagare. e tu sei muto mentre ti versi un dito di quel liquore che ti hanno regalato a natale. un liquore che è tanto buono e tanto denso e che scioglie ad uno ad uno i nervi ed i nodi accumulati nel collo e nella pancia. un liquore, che pensavi avresti aperto solo in un'occasione speciale. ma passavano i giorni sempre uguali e quell'occasione non è mai arrivata.

e adesso di quella bottiglia, da solo, ne hai bevuto già più di metà.

Percival

Avevo sei o forse sette o forse otto anni. Mi piaceva guardare la televisione. Spesso facevano le pubblicità dei giocattoli. Tra i tanti, c’era Percival “l’aiutante robot”, lo chiamavano. Nello spot, seguiva da vicino il suo padrone umano: un bambino che aveva sei o forse sette o forse otto anni come me e che gli diceva autorevole“Percival fai questo, Percival fai quest’altro”. Anche io morivo dalla voglia di comandare a bacchetta qualcuno, proprio come il fortunato e biondo e tronfio coetaneo mio. 
Sotto Natale, la frequenza e l’intensità dell’impulso televisivo alla compulsione di spendere e spandere non risparmia certo i bambini, anzi. Ancora oggi, ogni due/tre spot, almeno uno è dedicato ai nani acquirenti. Io vedevo ripetutamente Percival sfavillare nel bagliore delle immagini del mio televisore. Forse io e tutti i bambini di sei o forse sette o forse otto anni eravamo, prematuramente, inebetiti davanti alla sconcia possibilità di impugnare uno scettro di radio-comando e imporre la nostra acerba legge su chi, negli anni ottanta del secolo XX, occupava il gradino più basso della moderna scala sociale: il robot.
Percival si ripresentava a me con i suoi passaggi in TV la mattina presto prima di andare a scuola, dopo pranzo prima di fare i compiti e nel tardo pomeriggio dopo bim bum bam. E sempre lo vedevo servizievole, attento e scrupoloso, integerrimo nel suo ruolo di servo a circuiti integrati, con la sua voce modulata in frequenza e i suoi arti meccanici, sgraziati ma efficienti nel trasportare pesi e incombenze che finalmente, grazie a lui, non avrebbero più gravato sull’infanzia del mondo libero.
Più si avvicinava il natale, più io stesso ero diventato monocorde e monotematico nei discorsi con i miei genitori:“voglio percival voglio percival voglio percival”. Cos’altro c’era da dire? Niente: “datemi percival, ecco tutto. E se non ne siete capaci, nascondetevi pure nelle dieci profondità della terra chè tanto ovunque cercherete riparo, il verbo della mia maledizione vi stanerà e non vi darà più pace.”
Ma non ci fu bisogno di minacciare così tanto i miei genitori. Si trattava (e si tratta) di onesti lavoratori, persone perbene innamorate della famiglia e terrorizzati dall’idea deludere un figlio. Semplicemente, bastò attendere il 25 dicembre, e la mattina del santo giorno vidi materializzarsi sotto le fronde dell’abete sintetico il pacco dono contenente il mio servo robotico.

Esperire la frizione che insiste tra piano rappresentativo e quello reale, ovvero più banalmente: capire che quello che vedi in pubblicità è diverso da quello che poi ti ritroverai tra le mani, è una sensazione che non può certo definirsi di fastidio, soprattutto se hai sei o forse sette o forse otto anni. Più propriamente si tratta di una delusione, di una ferita lancinante nel petto che si riproporrà altre volte nella vita: quando avremo a che fare con i nostri sogni, una volta che si sono realizzati. Ma la prima volta che la provi, e hai sei o forse sette o forse otto anni, allora non ce la fai. Non la reggi. Io almeno non l’ho retta.

Liberato che ebbi il mio fido vassallo 
dalle grinfie dell’imballo
tosto lo posi in posizione di lavoro 
con voce perentoria che replica non ammette
fosti pagato l’equivalente del tuo peso in oro
e ora se non vuoi che io ti faccia a fette
presto usami la cortesia di seguire la mia signoria
dapprima in bagno a far toeletta
poi di grazia friggi una cotoletta
e alla sera raccontami una dolce poesia
così che morfeo mi accolga tra le sue braccia
e poi domani svegliati all’alba finchè sarà così che di trattarti mi piaccia 

Sapete voi cosa successe? Nulla di tutto questo, ovviamente. Percival non si muoveva al suono della mia voce, in bagno gli dissi “tienimi l’asciugamano” ma le sue braccia rimasero ferme e inermi. L’ultima possibilià gliela diedi allorquando papà disse “piero vai a buttare la spazzatura” e io feci vicino a Percival “lo senti? È per te, e fai presto. Robot.” Percival non si mosse, non si sarebbe mosso mai adesso era chiaro.

La notte io non chiusi occhio, non potevo credere a come ero stato preso in giro dalla pubblicità. Uno stuolo di creativi con gli occhiali a montatura spessa e i vestiti comodi ma eleganti, seduti intorno a un tavolo per capire come prendere in giro un bambino che aveva forse sei o forse sette o forse otto anni. 
Ma se non sapete nemmeno che età avevo -dannati imbroglioni!
Questi pensieri non mi facevano prendere sonno, mi davano sui nervi tutti: la pubblicità, i creativi, mamma e papà “perché avete ceduto così docilmente ai capricci di un bambino? Non avete pensato che forse avevo più bisogno di scarpe e pantaloni piuttosto che di un insignificante ammasso di ferraglia? ma che genitori sareste?”. Era tra questi tormenti che versava affranto l’animo mio, quando ecco che su di me scese benevola l’intuizione divina.
Scalciai via le coperte, di un balzo eccomi in piedi e poi presto in cucina. C’era mia nonna che fumava, non sapevo che fumasse anche di notte. Era la prima volta che vagavo per casa all tre di mattina. “Accussì giovin e già nun pje suonn chiù! Ma che vai facenn i tre a matin?”
Non risposi, nell’oscurità nota della cucina le scoccai uno sguardo che voleva dire pressapoco
“Fatti i fatti tuoi, vetusta antenata. Altrimenti dirò a tutti che fumi. E non solo la tua sigaretta pubblica e tollerata dopopranzo: quella che tutti conoscono, ma anche quella di straforo che succhi avida quando mi accompagni a scuola e quell’altra cui tiri boccate come per salvarti da un imminente soffocamento quando mi riporti a casa, e quella sciocca e voluttuosa quando andiamo a fare la spesa e adesso che lo so, anche questa sigaretta notturna. Sei una Tossica!”
Lei strinse più forte la sigaretta tra le dita come se le mie parole non dette avrebbero potuta farle scappare via per sempre il suo tesoro e in silenzio la sua faccia rugosa rispose “non ho visto niente. Lasciami in pace, satanasso!”

Io corsi lontano, ritornai in camera mia. In mano avevo le forbici prese dalla credenza. Senza accendere una luce trovai la sagoma grigia ed inerme di Percival, con uno scatto aprii il quadro di comando dietro la sua schiena e tagliai di un colpo tutti i fili che mi riuscii di trovare.