giovedì 27 giugno 2013

a me gli occhi

I nostri occhi, non sempre dicono la verità. Forse non la dicono mai, principalmente perché i nostri occhi non parlano. Quella che parla è la bocca .
allora aspetta, stai buono qui un attimino che prendo fiato e ricomincio.

I nostri occhi, non sempre vedono la verità. Principalmente, non vedono la verità su noi stessi. i nostri occhi del piffero: che cacchio ce li abbiamo a fare?
Sai, alle volte, io penso che avremmo bisogno di occhiali per guardarci meglio. di occhiali per guardare meglio la verità di noi stessi. e a tal proposito ti volevo proporre un esperimento.
iniziamo così: chiudili proprio questi occhi che è meglio.
pensa.
pensa a quelle giornate grigie, pensa al traffico, pensa a tutti che urlano in ufficio, e tu in mezzo a loro ad urlare, pensa alla pausa pranzo della mensa con quei vapori di cucinato che sembrano pennacchi di smog o di nebbia, pensa al caffè della macchinetta che non sa di niente.
ma, sai, non è poi  mica vero. quel caffè sa di qualcosa. ma fosse insapore, forse sarebbe meglio.
poi pensa a te che pensi a te stesso.
te stesso ingolfato, non importa da cosa. forse il lavoro, forse i figli, forse il mutuo, i tuoi genitori, i genitori di tua moglie, ingolfato dalle tasse, dall'amante, dall'amante di tuo marito. o forse da tutte queste cose insieme, o forse no. può darsi che ad ingolfarti sia semplicemente una digestione lenta, una costipazione, una malinconia al tramonto o ancora mille altre cose che non so. non che abbia poi tutta questa fantasia.
ma rimani qua con me un attimo, "ingolfato". pieno di cose, di nozioni, di treni da prendere, di casini, di donne, di situazioni ambigue, di letti sfatti, di macchine in doppia fila che ti chiudono, di chili di troppo, dolori alla schiena.
rimani solo un attimo qui con te, ancora un altro secondo. appesantito.

e adesso apri gli occhi, guardati.
Guarda le macchie di vitiligine sulle mani o le unghie mangiucchiate o lo smalto screpolato, guarda i vestiti che sono troppo stretti o non sono abbastanza alla moda. fai girare gli occhi sulle scarpe consumate. se vuoi, invece, gli occhi non aprirli e fatti un bel giro sul tuo cranio pelato o sui capelli bisunti o con le doppie punte o con la tinta da rifare che ormai ce li hai bicolore. fatti un giro sulla barba di tre giorni, sui punti neri del viso, tra i denti storti o gialli.
fai come vuoi.
ma adesso finalmente e senza appello stavolta, guardati. come ti senti? con che occhi ti stai guardando? chi sei ora davanti ai tuoi stessi occhi?
riesci a tollerare la tua presenza?

non dirmelo ché l'esperimento non è ancora finito.
Piuttosto, andiamo avanti.

Respira un pò e lascia andare i tuoi occhi pesanti e giudici. Lascia andare il peso. non c'è più. Bianco, nero profondo, grigio di indecisione, pensa ad un colore che ti riporti alla neutralità. Sei tu qui, ancora un pò con me. io e te.
Adesso fammi un favore, guardati con altri occhi. occhi di altri. altri che ti hanno guardato in vita tua. occhi che non siano i tuoi. non occhi "nuovi", con quelli ci hanno già scritto troppe poesie, solo occhi "diversi".
Per esempio guarda alla tua vita con gli occhi di tua madre o di tuo padre. Qugli occhi che sorridono ancora oggi quando fanno da cornice ad una bocca che dice "Sa signora, io sono così fortunata: mio figlio è un famoso dottore". o forse avvocato, o ingegnere o salumiere o filibustiere o finanziere o figlio di puttana. a quegli occhi non interessa. riesci a farli tuoi gli occhi di chi non è interessato a nulla se non te stesso e basta? così come sei e basta. sono gli occhi di una madre.
Sì lo so: "la vita è una merda" e tu non ce l'hai avuta una mamma che ti voleva bene. o sei orfano. oppure tante cose, ma sta di fatto che non ti sei riuscito ad immedesimare più di tanto e il colpo di scena non mi è riuscito.
ma io ho altri conigli nel cappello, non ti credere, sono qui apposta e oggi non ti mollo

Fai così gli occhi non li aprire proprio più, fatti un viaggietto con le palpebre sugli occhi. guido io.

pensa a tua sorella o a tuo fratello. pensa a quando dicevano agli amici nei vicoletti delle strade dove sei cresciuto "smettila di darmi fastidio sennò chiamo a mio fratello grande e ti fa vedere lui" anche una sorella grande fa paura a quell'età, stai tranquillo. oppure, pensa a tua sorella grande che stava di là in camera con le amiche a parlare di fidanzati e a scrivere lunghe lettere con la carta profumata e poi ad un certo punto veniva in camera da te e ti stringeva e ti diceva "ma che bello il mio fratellino". Ti stringeva proprio forte, vero? pensa ai suoi occhi chiusi mentre ti stringeva. chissà cosa guardavano, eh? chissà come guardavano te.
Vedi che il discorso vale anche se avevi un fratello e qui lo voglio fare solo per completezza.

Respira solo un paio di volte, lento lento. pensa a tuo fratello, che ti riempiva di mazzate da piccoli, pensa ai suoi soprusi alle sue piccole angherie. e pensa poi al giorno che ti ha accompagnato all'altare perché papà non c'era più, o più semplicemente pensa a quel giorno che eravate a fare le guide in macchine e tu finalmente tra mille sudori sei riuscito a mettere la quinta e allora sghignazzavi ancora un pò nervoso e lui si è preso un secondo, un attimo piccolo, per guardarti da sotto i suoi baffi ben più folti dei tuoi. che sgaurdo era? ammirazione? rispetto? gioia?
Lo hai mai avuto quello sguardo per te nei tuoi occhi?

e se hai avuto grossi problemi in famiglia e non hai avuto occhi di madre e padre, e fratelli e sorelle erano ciechi o non c'erano...beh, forse hai ragione a lamentarti, perché molte condanne sono solo l'effetto di sentenze emesse in quel nucleo pazzo e maledetto che è la famiglia. ma non lamentarti in eterno, perchè ti faccio fare un altre esperimento.

pensa ancora, lo so che stai facendo un pò fatica stasera qua con me. ti chiedo di chiudere gli occhi, di riaprirli, di pensare. ma tu fallo, tanto guarda che abbiamo quasi finito.
allora pensa a Dio.
pensa a dio e mettici una "d" maiuscola, minuscola come ti pare. pensa a dio che è nei cieli, pensa a Dio che è nel centro della terra, Dio che è dappertutto, il cerchio il cui centro è in ogni luogo e la circonferenza da nessuna parte (e questa è un pò più difficile, eh?). se vuoi pensa alla natura oppure, se ti va, pensa ad una fiamma inestinguibile che tu ti porti nel cuore insieme a tutti gli altri uomini e donne di questo pianeta. Una fiamma che brucia dentro e arde di speranza, una fiamma o anche solo una forza -per carità!- o una parte più pura e immacolata di te stesso, che non cede agli inganni dei tuoi occhi. Che non crede a quello che di brutto tu credi di te stesso. una parte che non si arrende mai. Che ritorna alla carica anche dopo l'ennesima sconfitta. Una parte che è come il tuo cane: fedele, senza un vero perché. Di sicuro non solo perché gli dai da mangiare e lo porti fuori.
Guardati con gli occhi di quella parte che sei tu stesso, guardati con la forza del mare che porti dentro, con l'ardore della fiamma, la furia dell'uragano che continuamente esplode dentro te e che adesso io e te, per semplicità, conveniamo di chiamare dio.
Guardati con gli occhi di chi dentro te non ha mai paura. di chi sa solo ricominciare e mai smettere, di chi vuole tenere la testa alta e fiera tra la gente senza negare a nessuno un sorriso o una carezza.
guardati attraverso quella parte, come puoi non amarti?

Ecco adesso fai come vuoi, apri gli occhi oppure chiudili o incrociali perfino. fai come vuoi, l'esperimento è finito.
Grazie.

come dici, scusa? sì ho capito, ho capito, non ti scaldare. "non credi in dio": lettera minuscola o maiuscola chissenefrega. Uragani o tuoni o lampi...  importa una sega, ho capito.
beh, amico che il viaggio ti sia comunque lieve in questa vita, ma senza conoscere gli occhi di tua madre, dei tuoi fratelli e rifiutando gli occhi di dio mi sa che saranno proprio tutti cazzi tuoi. e non dolci.

martedì 25 giugno 2013

il sesso non è più come quando c'eri tu

il sesso non è più
come quando c'eri tu

annuso le tue mutandine rosa
penso solo ad una cosa
nelle guance di un sol colpo avvampo
se dei tuoi vestiti abbasso la lampo

il sesso non è più
come quando c'eri tu

sono arrugginite le manette
sono scaduti baby oil e altri unguenti
nella stanza non sento più strazi e lamenti
tra le pareti non risuonano più le mie risate maledette
il sesso non è più

come quando c'eri tu
stamane nel letto solitario mi son svegliato
inutile dirti che ti ho sognato
ma di certo quel che è peggio -come vedi-
è che continuo a sognarti pur stando in piedi

il sesso non è più
come quando c'eri tu
la sera è un lento calvario
che consumo tra facebook e le pagine del diario
su facebook leggo i tuoi aggiornamenti
sul diario scrivo i miei tormenti

il sesso non è più
come quando c'eri tu

questa quartina trista e ritmata
dedicata è al corpo della mia amata
pelle bianca e vellutata
faccia sorridente, smorfia sfrontata


il sesso non è più
come quando c'eri tu

gambe sinuose e lunghe
denti bianchi e splendenti
occhi che finalmente ridono contenti
contenti perchè si sono accorti che

di certo il sesso meglio è
da quando non sto più con te

lunedì 24 giugno 2013

Pierpaolo (bozzetto di un uomo)

Il giorno dopo è sabato. Arianna deve andare a scuola anche oggi, mentre Pierpaolo è libero da impegni con lo studio. 
-Amore, vai tu a preparare il caffè?
-no tesò mi scoccio, sono ancora stanco. Vai tu
-e no, io devo lavorare, tu oggi sei a casa.
-si ma io ieri ti ho fatto un massaggio ai piedi.
Arianna si toglie le coperte di dosso con un gesto appena plateale che intende sottolineare come la prospettiva di preparare il caffè, portarlo a letto a Pierpaolo e poi andare a lavorare non sia molto esaltante.

-ecco qua il caffè dell’avvocato
-grazie amore sei proprio un tesoro
-tesoro un corno. Senti io adesso mi preparo e poi me ne vado ci vediamo a pranzo. Non ti dimenticare che alle dieci hai allenamento.
-si, ciao
-ciao
Pierpaolo è stato un discreto giocatore di calcio. Quando era ancora nell’arma faceva parte della squadra di calcio della radiomobile. Lì, di norma, prestavano servizio i ragazzi più giovani ed in forma. La loro squadra era il tormento di tutte le altre.
Da quando lavora come praticante, Pierpaolo non è riuscito a trovare una squadra che facesse al caso suo. I vecchi colleghi avevano orari diversi dai suoi e difficilmente riusciva a combinare con loro. 
Chissà come è uscito fuori il discorso  con Gioacchino, il prete della sua parrocchia.
-pierpà, ma a pallone ci giochi più?
-eh Gioacchino, ma come faccio? Con lo studio da seguire e Arianna. Mica la posso lasciare a casa sempre sola per un motivo o per un altro, con lei che paga tutti i conti.
-hai ragione. Però mi dispiace perché so che ti divertivi con il pallone. 
-eh Gioacchino, quella è pure l’età che avanza: non sono più un ragazzino.
-ma non dire fesserie adesso. Piuttosto, noi qui avevamo una mezza idea di mettere su una squadretta per i ragazzi del quartiere. Perché non vieni ad allenarla tu?
-io e che ne so di come si allena una squadra?
-guarda che mica viene a giocare Gullit qua. Ai ragazzi basta uno che sappia come giri la palla, un paio di schemi li conosci pure tu, no?
-beh un paio, sì. Mi ricordo quelli del mister di quando giocavo in eccellenza.
-e allora! Non farti pregare, vieni ad allenare questi ragazzini. Che più che altro hanno bisogno di una persona seria ed equilibrata con cui passare un po’ di tempo. Un modello.
-mi basterà allenarli un po’. Per i modelli si rivolgano a te che è meglio.
-amen.

E così Pierpaolo è diventato l’allenatore della squadra under 18 del quartiere. Ci sono anche un paio di fuoriquota: ragazzi più grandi, ma nessuno al di sopra dei 21.
Non credeva che allenarli sarebbe stato così divertente.

La sera precedente al primo allenamento era rimasto a parlare con arianna un po’ più del solito. Era nervoso Pierpaolo –e se non li so allenare? Se non gli sono simpatico? Se non so gestire lo spogliaotoio?
A sentire la parola ‘spogliatoio’ Arianna quasi si strozzava dalle risate –ma se la parrocchia non ce l’ha nememeno lo spogliatoio, che ti vuoi gestire?
-ma annina “gestire lo spogliatoio” è una frase fatta per dire…
-lo so che vuol dire. E credimi non c’è nessuno meglio di te che possa gestire uno spogliatoio. Soprattutto se lo spogliatoio non c’è.
Quest’ultima frase la fece ridere ancora di più. Pierpaolo non trovava proprio nulla di comico.
E veramente il giorno dopo non ci fu nulla di comico nell’allenamento. I ragazzi lo stavano a sentire svogliati, e si passavano il pallone anche quando Pierpaolo gli diceva di stare zitti e fermi. E poi c’era la questione razziale da chiarire. 
Nella loro città, quello era il quartiere degli emigranti. In uno stesso palazzo, magari su uno stesso pianerottolo ti potevi trovare famiglie arabe e coreane, nigeriani e polacchi. Non sempre l’integrazione era semplice.
Quegli stessi conflitti, Pierpaolo, se li trovò spesso in campo da gestire durante l’allenamento. 
Non emergevano subito, chiaro. Il primo quarto d’ora passava di solito tranquillo. Poi quando si iniziava a fare una partitella, c’era sempre qualcuno che prendeva con più facilità una caviglia che la palla e così partivano gli insulti, e dopo gli insulti le minacce, e dopo le minacce volavano le spinte, le squadre che si riaggregavano sulla base dei colori della pelle invece che delle magliette. Il pallone che rotolava solitario al di fuori del campo.

Pierpaolo in quei momenti non sapeva che fare. Per prima cosa era sbigottito da quello che sentiva dire ai ragazzi, dalle offese che si sputavano in faccia senza pensarci una volta, dall’odio, dal livore che si scaricavano a vicenda e che non sembrava possibile potessero covare gli uni con gli altri solo per via della loro razza.

La famiglia Signorini (bozzetto)

Marina:  bambina sveglia e vivace, sarà la testa di ponte tra le due famiglie. Imparerà a giocare a calcio da Augusto.
papà: signore borghese. Ama leggere il giornale la sera  prima e dopo cena. Non gli interessa il calcio. È un professore. 
Nonna: hippy della casa, sorridente. Buona.
Mamma: sempre un po’ diffidente. Molto cattolica. Fondamentalmente buona ma frenata dal sentire comune
Augusto Signorini: calciatore della Juve che si trasferisce nella villetta in collina a fianco della famiglia di Marina. Augusto si è fatto da sé. È un ragazzo semplice, buono. Non perde mai la calma e non crede di essere una star. 
Carla e Silvana: le figlie di Augusto. Serie compite, consapevoli del ruolo del padre. Lo accettano con docilità.
Sonia Signorini: la moglie di Augusto, non c’è nel trasloco.

La famiglia signorini si trasferisce accanto alla villetta di Marina. Marina all’inizio non sa chi sia signorini. Carla e Marina hanno la stessa età. Silvana un anno in meno. Carla frequenta la stessa scuola di Marina.
Così le bambine iniziano a vedersi dopo scuola. Un pomeriggio Augusto si offre di giocare un po’ a calcio con loro. Quando torna a casa, la mamma rimane un po’ meravigliata ed interdetta che la figlia stia imparando a tirare calci ad un pallone.

Qualche giorno dopo Signorini e le figlie vanno in giro in centro. Signorini firma gli autografi, marina torna a casa e racconta il fatto concludendo con “ha detto Signorini che non c’è problema perché finché firma gli autografi firma anche gli assegni”. La nonna si fa un sacco di risate.

Se io dovessi morire stanotte

se io dovessi morire stanotte.

se io dovessi morire stanotte non mi trovereste nel mio talamo nunziale. sdraiato mollemente e senza forze. con un filo di voce a dirvi 
"muoio felice perché ho vissuto una vita lunga e piena. muoio con il sorriso sulle labbra che hanno assaporato tutti i giorni vissuti. ed ora capisco il senso e mi è tutto chiaro e vi posso dire in serenità e gioia <<amici miei siate felici perché la vita è una sola e seguite il mio saggio esempio perché io so, io ho capito, io ho percepito il grande e pieno valore che alberga in ognuno di noi ed in ogni attimo mi sono dedicato a farlo emergere e vibrare in me ed in ognuno di voi>>"

se io dovessi morire stanotte, mi vedreste girare in tondo per tutte le stanze di tutte le case di ogni dannata città dove ho vissuto. sputacchiando fiele e rantolando. appoggiando le mani lerce sulle pareti annerite dal fumo. dall'acredine dei giorni andati.
mi vedreste setacciare gli armadi e i cassetti, frugare tra le tasche di pantaloni che non mi vanno più tanto sono grasso. rovesciare i cappeli ed i libri che non leggo più da tempo. strappare tutti i nastri delle cassette, spezzare i cd, bucare gli schermi catodici e quelli piatti. perché ancora non l'ho trovato un senso. un luogo io non l'ho trovato.
e così come ho speso i miei giorni spenderò la mia morte. cercando di posticiparla, di offenderla, di evitarla. "dopo" c'è sempre un "dopo" quando il serbatoio della vita è pieno e c'è un "dopo" anche quando è a metà e ad un quarto. e poi all'improvviso non c'è più "niente", ogni metro succhia un altro po' di benzina. e di benzina non c'è ne è più.
griderei che sono stato fregato. griderei che non ne valeva la pena fare tutto e farlo bene e poi farlo ancora meglio. 
mi accascerei in un angolo a dire " non ho scopato abbastanza, non ho visto abbastanza mondo. ho comprato la tv satellitare e forse ho visto solo metà dei canali"
sarei sopraffatto dall'idea di non aver avuto abbastanza amici, di aver lasciato andare quelli che avevo trovato. sentirei una ruga sottile eppure profonda, qui, dietro la nuca. la ruga di tutti i sì non detti ma eseguiti con il capo. la ruga di tutte le volte che ho abbassato la testa.
verrebbe qualcuno a consolarmi, ma sarebbe come voler riempire un vaso bucato.
questo sono stato io nella mia vita: un vaso che non si riempie mai. non ho tracimato mai. non mi è bastato mai. le donne, i soldi il vino, l'amore il potere racimolato, le macchine guidate. i tramonti, le albe. i mattini e gli uccelli nel cielo sempre troppo pochi. sempre un po' in meno di quello che volevo o immaginavo.
mi alzerei dall'angolo, quest' angolo stornzissimo dove sono ora e direi solo parole. niente più frasi
"cazzo, merda, dolore, rancore, timidezza, rabbia, incapace, molle, privo, stolto, e mai mai nemmeno un secondo solo vivo"

se io dovessi morire stanotte, ma solo i saggi e gli elefanti sanno quando devono davvero morire. alle volte si apre uno squarcio nel cielo di carta. un amico muore, rischiate un incidente mortale per mandare una mail al capo mentre siete in autostrada. a tuo padre viene un infarto che non lo ammazza. e tutti in famiglia tirano un respiro un po' più forte. e tu sai, capisci al volo che la vita è fragile e debole e flebile e labile. che la vita è una briciola che ti hanno dato per sbaglio, una briciola che è caduta dal ricco piatto di chissà quale ricco epulone. la vita è una mollica di pane con cui ti hanno fatto giocare e che ora è secca e dura e rafferma. e non serve più.
ma così come si è aperto in un attimo, il cielo si richiude. basta una rata dimenticata del condominio. basta pensare a come diversificare i propri investimenti in vista della prossima crisi, pensare a come superare il prossimo colloquio sennò quelli del mutuo ti mangiano vivo e con il cazzo che poi ci arrivi a fine mese. 
basta una cosa di queste e ritorni a capo.qualcuno, tu stesso, voi stessi, io stesso, mi metto di buona lena a  rattoppare il buco. ed il cielo di carta è di nuovo lì, in alto, lontano e azzurro e splendido.
certi giorni può capitare che qualcuno dica "veh, cos'è quello? forse che qualcuno ha rattoppato per caso il cielo?"
" ma no non è possibile, il cielo è intero. la vita è intera. i giorni sono interi e non si aprono non si sfaldano. non si squartano. ma cosa dico mai?"
e tutto ritorna muto. 
è muto l'abitacolo dell'auto quando torni a casa dal lavoro. è muta tua moglie ed i tuoi figli giocano muti nel soggiorno che ancora devi finire di pagare. e tu sei muto mentre ti versi un dito di quel liquore che ti hanno regalato a natale. un liquore che è tanto buono e tanto denso e che scioglie ad uno ad uno i nervi ed i nodi accumulati nel collo e nella pancia. un liquore, che pensavi avresti aperto solo in un'occasione speciale. ma passavano i giorni sempre uguali e quell'occasione non è mai arrivata.

e adesso di quella bottiglia, da solo, ne hai bevuto già più di metà.

Percival

Avevo sei o forse sette o forse otto anni. Mi piaceva guardare la televisione. Spesso facevano le pubblicità dei giocattoli. Tra i tanti, c’era Percival “l’aiutante robot”, lo chiamavano. Nello spot, seguiva da vicino il suo padrone umano: un bambino che aveva sei o forse sette o forse otto anni come me e che gli diceva autorevole“Percival fai questo, Percival fai quest’altro”. Anche io morivo dalla voglia di comandare a bacchetta qualcuno, proprio come il fortunato e biondo e tronfio coetaneo mio. 
Sotto Natale, la frequenza e l’intensità dell’impulso televisivo alla compulsione di spendere e spandere non risparmia certo i bambini, anzi. Ancora oggi, ogni due/tre spot, almeno uno è dedicato ai nani acquirenti. Io vedevo ripetutamente Percival sfavillare nel bagliore delle immagini del mio televisore. Forse io e tutti i bambini di sei o forse sette o forse otto anni eravamo, prematuramente, inebetiti davanti alla sconcia possibilità di impugnare uno scettro di radio-comando e imporre la nostra acerba legge su chi, negli anni ottanta del secolo XX, occupava il gradino più basso della moderna scala sociale: il robot.
Percival si ripresentava a me con i suoi passaggi in TV la mattina presto prima di andare a scuola, dopo pranzo prima di fare i compiti e nel tardo pomeriggio dopo bim bum bam. E sempre lo vedevo servizievole, attento e scrupoloso, integerrimo nel suo ruolo di servo a circuiti integrati, con la sua voce modulata in frequenza e i suoi arti meccanici, sgraziati ma efficienti nel trasportare pesi e incombenze che finalmente, grazie a lui, non avrebbero più gravato sull’infanzia del mondo libero.
Più si avvicinava il natale, più io stesso ero diventato monocorde e monotematico nei discorsi con i miei genitori:“voglio percival voglio percival voglio percival”. Cos’altro c’era da dire? Niente: “datemi percival, ecco tutto. E se non ne siete capaci, nascondetevi pure nelle dieci profondità della terra chè tanto ovunque cercherete riparo, il verbo della mia maledizione vi stanerà e non vi darà più pace.”
Ma non ci fu bisogno di minacciare così tanto i miei genitori. Si trattava (e si tratta) di onesti lavoratori, persone perbene innamorate della famiglia e terrorizzati dall’idea deludere un figlio. Semplicemente, bastò attendere il 25 dicembre, e la mattina del santo giorno vidi materializzarsi sotto le fronde dell’abete sintetico il pacco dono contenente il mio servo robotico.

Esperire la frizione che insiste tra piano rappresentativo e quello reale, ovvero più banalmente: capire che quello che vedi in pubblicità è diverso da quello che poi ti ritroverai tra le mani, è una sensazione che non può certo definirsi di fastidio, soprattutto se hai sei o forse sette o forse otto anni. Più propriamente si tratta di una delusione, di una ferita lancinante nel petto che si riproporrà altre volte nella vita: quando avremo a che fare con i nostri sogni, una volta che si sono realizzati. Ma la prima volta che la provi, e hai sei o forse sette o forse otto anni, allora non ce la fai. Non la reggi. Io almeno non l’ho retta.

Liberato che ebbi il mio fido vassallo 
dalle grinfie dell’imballo
tosto lo posi in posizione di lavoro 
con voce perentoria che replica non ammette
fosti pagato l’equivalente del tuo peso in oro
e ora se non vuoi che io ti faccia a fette
presto usami la cortesia di seguire la mia signoria
dapprima in bagno a far toeletta
poi di grazia friggi una cotoletta
e alla sera raccontami una dolce poesia
così che morfeo mi accolga tra le sue braccia
e poi domani svegliati all’alba finchè sarà così che di trattarti mi piaccia 

Sapete voi cosa successe? Nulla di tutto questo, ovviamente. Percival non si muoveva al suono della mia voce, in bagno gli dissi “tienimi l’asciugamano” ma le sue braccia rimasero ferme e inermi. L’ultima possibilià gliela diedi allorquando papà disse “piero vai a buttare la spazzatura” e io feci vicino a Percival “lo senti? È per te, e fai presto. Robot.” Percival non si mosse, non si sarebbe mosso mai adesso era chiaro.

La notte io non chiusi occhio, non potevo credere a come ero stato preso in giro dalla pubblicità. Uno stuolo di creativi con gli occhiali a montatura spessa e i vestiti comodi ma eleganti, seduti intorno a un tavolo per capire come prendere in giro un bambino che aveva forse sei o forse sette o forse otto anni. 
Ma se non sapete nemmeno che età avevo -dannati imbroglioni!
Questi pensieri non mi facevano prendere sonno, mi davano sui nervi tutti: la pubblicità, i creativi, mamma e papà “perché avete ceduto così docilmente ai capricci di un bambino? Non avete pensato che forse avevo più bisogno di scarpe e pantaloni piuttosto che di un insignificante ammasso di ferraglia? ma che genitori sareste?”. Era tra questi tormenti che versava affranto l’animo mio, quando ecco che su di me scese benevola l’intuizione divina.
Scalciai via le coperte, di un balzo eccomi in piedi e poi presto in cucina. C’era mia nonna che fumava, non sapevo che fumasse anche di notte. Era la prima volta che vagavo per casa all tre di mattina. “Accussì giovin e già nun pje suonn chiù! Ma che vai facenn i tre a matin?”
Non risposi, nell’oscurità nota della cucina le scoccai uno sguardo che voleva dire pressapoco
“Fatti i fatti tuoi, vetusta antenata. Altrimenti dirò a tutti che fumi. E non solo la tua sigaretta pubblica e tollerata dopopranzo: quella che tutti conoscono, ma anche quella di straforo che succhi avida quando mi accompagni a scuola e quell’altra cui tiri boccate come per salvarti da un imminente soffocamento quando mi riporti a casa, e quella sciocca e voluttuosa quando andiamo a fare la spesa e adesso che lo so, anche questa sigaretta notturna. Sei una Tossica!”
Lei strinse più forte la sigaretta tra le dita come se le mie parole non dette avrebbero potuta farle scappare via per sempre il suo tesoro e in silenzio la sua faccia rugosa rispose “non ho visto niente. Lasciami in pace, satanasso!”

Io corsi lontano, ritornai in camera mia. In mano avevo le forbici prese dalla credenza. Senza accendere una luce trovai la sagoma grigia ed inerme di Percival, con uno scatto aprii il quadro di comando dietro la sua schiena e tagliai di un colpo tutti i fili che mi riuscii di trovare.

La puttana di via Verdi

***alcuni personaggi sono stati introdotti in altri racconti e ancora non li ho messi sul blog, anche perché sono troppo lunghi***

Entra pure ragazzo, lascia la cinquantamile lire sul comò nell’ingresso.
Togli il cappotto, ragazzo, e allenta il nodo alla tua cravatta.
Non ti preoccupare dei vicini, le tapperelle sono abbassate e qui non ti vede nessuno.
Fai con calma, ragazzo, e poi vieni qui in camera da letto.
Io sto fumando una sigaretta e distrattamente penso a cose che non ti riguardano.
Sono fatti miei, ragazzo.
Fatti della puttana di via verdi.

Prima o poi tutti passano qui da me.
Antonio il silenzioso, non toglie il cinturone di cuoio nemmeno quando entra dentro di me. Io gli vedo la spara etichette che penzola prima avanti e poi indietro, prima avanti e poi indietro.
Viene lo stralunato, dice sempre che cerca una ragazzina con i capellli biondi e gli occhi verdi.
Gli soffio in faccia una boccata della mia sigaretta e dico <<Qui non c’è quello che cerchi. Qui ci sono solo io, la puttana di via verdi>>  poi gli stringo forte il cazzo, subito lo sento crescere nella mia mano. Il suo viso si stravolge e senza una parola mi segue fin nella camera da letto.
Per tutto il tempo che rimane su di me, i suoi occhi restano chiusi e io so che tra le mie cosce sta dimenticando quella ragazzina.
Solo da quando è rimasto vedovo viene Mario. Da giovane ero io a volerlo: mi fermavo davanti alla vetrina della bottega e lo fissavo sfacciata, con lussuria. Lui sorrideva educato e faceva finta di niente. Ora viene una volta al mese e quando affonda la testa nei miei seni ancora fermi, sospira e geme un nome che non è il mio.
E poi c’è Silvestro.
Non sale mai, si ferma in strada e fissa la mia finestra chiusa. Silvestro calca il cappello sulla testa e attacca una canzone con l’armonica. E’ triste la canzone del playboy di via Verdi e mi fa ricordare di lui, quando una volta tanto tempo fa godeva su di me e urlava “il sole, il sole! Carla, faccio l’amore con il sole!”
Appena la canzone finisce gli apro il portone e lui lascia le cinquanta mila lire nella cassetta della posta: lo sa che l’ascolto e piango ogni volta che lo sento suonare e lo conosce bene il prezzo delle mie lacrime di puttana.
E tu? Cosa sei venuto a fare tu? Chi sei? Dimmelo, perché non lo so bene. Non ti si vede in strada, non hai etichette sulla fronte e non fai la fila alla bottega di Mario. Forza dimmelo, o se vuoi non farlo tanto è lo stesso: tra poco saranno i colpi dei tuoi reni e i morsi dei tuoi denti a dirmi di che pasta sei fatto.
E questo a me non potrai nasconderlo, ragazzo.

Il matto di via Verdi 3

Buongiorno. 
Io non sono matto, le sembro forse matto?  Sì? E come è possibile dico, io? Come fa a sembrarle possibile una cosa del genere? Ebbene, io non sono matto. Non lo sono mai stato. Lo giuro. Lo giuro su dio e se giuro su dio allora mi può credere. Perché? Come perché? Ma lo sa che io sono il figlio di dio? Se giuro qualcosa su dio e poi non è vero allora dio mi fulmina all’istante. Non so –le faccio un esempio- per farle capire, è come se lei, che è una persona normale, dicesse “ti voglio bene marisa lo giuro su mia madre”. Ma il fatto è che lei a marisa non vuole bene neanche un po’. Io lo so come sono i tipi come lei. Lei a marisa se la vuole solo mettere sotto a cosce aperte, è vero? Dica che non è vero, forza! Tanto non le credo.
Comunque per caso mentre dice“ti voglio bene marisa, lo giuro su mia madre” per caso passa veramente sua madre e sente che lei sta giurando il falso su di lei. Beh, sua madre che farebbe? Io credo proprio che le suonerebbe una scopa in testa, ecco quello che credo io. 
e allora vede? Come potrei io giurare il falso su dio? Quello mi fulminerebbe all’istante, non ci metterebbe niente. Come, scusi? Ma come fa sua madre a sapere che lei non ama marisa, mi chiede? Beh, facile: glielo ho detto io. E come facevo a saperlo io?
Ma glielo ho detto  o no che sono il figlio di dio?

Cosa c’è la sveglia non ha suonato stamattina? Lo so io cosa ci vorrebbe per quelli come lei …

Il matto di via Verdi 2

-io non sono matto, vero? Dicono che la prima cosa che dicono i matti quando lo diventano è  “non sono matto.” 
Si d’accordo è una trovata carina, ma che significa? Niente. Allora, un sano dovrebbe dire “sì sono matto” solo per non farsi additare come matto? Ma che senso ha? Secondo me questa è una cosa che hanno messo in giro i matti, per depistarci.
Ci sono un sacco di cose che vengo non dette solo per depistarci. La legge di gravità per esempio. Dicono che sia questa legge a far sì che, per esempio, la luna non precipiti verso la terra. 
Quando invece io so benissimo che se succede è solo perché io passo ogni mattina dalle 9e 13 alle 10e42 con il gomito del braccio sinistro appoggiato al primo lampione sul lato sinistro di via verdi, quello dei numeri pari. Se non lo facessi, se per esempio oggi non ne avessi avuto voglia, la luna sarebbe cascata sulla terra. Le maree si sarebbero alzate fino a sommergere le città. Sarebbe stato come buttare un sasso in uno stagno e vedere tutto lo stagno schizzare fuori. Ma fuori, dove? Già questo lo domando a lei. E le domando pure le sembro forse matto?
Io? Ma se è una medaglia che mi dovrebbero dare! Una medaglia al valore, ecco. E non le ho raccontato dei mazzi di carte che mescolo. Ogni giorno devo passare sul lato sinistro di vi a verdi, con un mazzo di carte in mano e lo devo mescolare velocissimo contando da uno a 52. E quando arrivo a 52 il mazzo deve essere tutto mescolato. E intanto devo continuare a camminare, fino alla fine di via verdi e quando sono arrivato alla fine di via verdi i mazzi devono essere stati mischiati 73 volte. Altrimenti devo rimanere in quel punto di via verdi, aspettare che passino tre macchine gialle e ricominciare tutto in senso inverso. Contando da 73 a uno e da 52 a uno. Ogni volta.
E lei lo sa perché? Chiaro che non lo sa, perché io ho sempre fatto il mio dovere, ma se non lo facessi per un giorno. Un giorno soltanto. Ci sarebbe un terremoto un terremoto potentissimo. I palazzi sarebbero inghiottiti in un sol boccone. Il suo negozio. Lei stesso. Ingoiati dalle fauci della terra. 

Perciò io non sono matto, sono un eroe. E se non mi danno una spilla da appuntarmi sul petto che me ne diano almeno una a forma di stella da attaccarmi al cappello. E che diavolo, si figuri che io con dio …

Il matto di via Verdi 1

-buongiorno, come va? A me tutto bene grazie. Ma non è per parlare della mia salute che sono venuta fino a qua chiaro.
-il mio problema? Il mio problema giusto. Beh, come dire… non è che ci siano poche parole per parlare del mio problema della mia situazione, voglio dire, come si fa?
-è chiaro, no? Come faccio a condensarla in poche parole. È impossibile.
-il principio, il principio vuol sapere? Beh in principio era il verbo e il verbo era dio e il verbo era presso…
-perché fa quella faccia? È ben questo il principio, no? Come non è questo? Ah, ma è il mio di principio che vuol sapere. Il principio di questa condizione che è poi il mio principio giacchè io e questa condizione siamo indissolubilmente legati. Lei ci crede vero? Che io sia una sola cosa con questa condizione, vero? È impossibile andare avanti, altrimenti.
-ma cosa stavo dicendo? Forse mi sono persa. Ma come si fa dico io a non perdersi? Voglio dire così tante parole, così tante azioni, così tanti pensieri. Come si fa a scegliere quelli giusti. A non commettere peccato?
In principio era il verbo. La parola. E quando vennero i pensieri allora? Dopo, certo.
Se io le dicessi che è il pensiero ad essere ancella del linguaggio, lei farebbe lo sforzo di credermi. O mi manderebbe via a calci in culo?

No, non volevo essere maleducata. Però è così, tutto quello che ho detto è vero. E patetico. E patetico perché vero. È  vero perché … già perché? Perché dovrebbe essere vero. Ma cosa m’importa, sa. Alla fine se è vero oppure no, non è affar mio. 

Overture di Via verdi

Forse hai sentito pure di tu di quel vecchio giù in via verdi. Pare che un giorno abbia acceso una candela e ci abbia messo un bicchiere intorno, qualcosa insomma, perché la fiamma fosse riparata e non si spegnesse.
Pare che l’abbia tenuta lì per un po’, quella candela, e poi sia andato da un amico caro, da un parente, magari una zia e gli abbia detto qualcosa tipo -Ecco prendi adesso tocca a te. Non farla spegnere.- E poi pare che pure questo amico o parente o zia -che ne so- abbia chiamato qualcuno di caro, qualcuno cui voleva bene, ma tanto. E sembra proprio che gli abbia detto di nuovo -Ecco prendi adesso tocca a te. Non farla spegnere.-  Io non so se tu l’abbia sentito questo fatto, ma io sì. 
E poi c’è il seguito:
sembra che questa candela, con ‘sto bicchiere intorno, tipo paracandela insomma, sia andata da una parte all’altre della città. Di mano in mano, si direbbe. E sempre la mano che riceveva era amica o parente o zia della mano che dava. E tutti ma proprio tutti dicevano -Ecco prendi adesso tocca a te. Non farla spegnere.- E passava un sacco di tempo e la candela non si consumava mai.
Ecco vedi questo è quello che ho sentito io. Ma fino ad oggi non ci volevo credere mica, che storia! Mica si può credere ad una storia così.
Poi oggi mi chiama uno e mi fa -sono Giulio. Mi hanno dato la candela con il bicchiere intorno. La voglio venire a dare a te. Dove ti trovo?-
Io gli ho detto -ma dove vuoi che sia? Qui. Al bar.- Che poi, ma chi lo conosceva questo Giulio? E infatti quando è venuto da me al bar gli ho proprio detto:
-Giulio mi sa tanto che a te non ti conosco mica.
-ma io sì, e ti voglio pure bene.- mi ha detto. E mi ha dato sta candela con il bicchierino intorno dicendo -Ecco prendi adesso tocca a t e... – e tutta la filastrocca, ma serio! Ti giuro, serio!
Io, allora, l’ho presa in mano e appena Giulio se ne è andato mi è venuta subito voglia di soffiarci sopra a quella fiamma, per spegnerla. Così, per gioco. 
Ma non l’ho fatto.
Invece, ti ho chiamato e ti ho dato appuntamento.
E adesso, sto per darti ‘sta candela con un bicchierino intorno che non so bene nemmeno cosa sia, ma so che è solo a te che la devo dare.
Però  -a voce- di raccontarti tutta ‘sta storia, non ci avevo troppa voglia. Anzi, se lo vuoi sapere mi vergognavo un po’. Così ho scritto questo biglietto e adesso mi sono pure stancato, che è venuto troppo lungo. 
Perciò ti dico solo: -Ecco prendi adesso tocca a te. Non farla spegnere.-

Piero

Intervista a mia nonna

-io sono del trentatré. Questo significa, nipote mio bello, che io sotto al fascismo ci sono nata. Durante la guerra ero una bambina non è che mi ricordi poi molto, ma tu che vuoi sapere?
-non lo so, nonna, raccontami quello che ti ricordi tu. come viene viene, non ti preoccupare. -ma tu nel frattempo che fai, registri?
-epperforza.
-ma a me mi viene da ridere!

-e non ridere nonna, non ridere sennò qua non si capisce niente più. quello già solo dio lo sa e la madonna lo vede1 come registra ‘sto cellullare. Forz’ jà2!
-va bè non rido hai ragione tu, o sennò qua va a finire veramente che non combiniamo niente.
e allora io, come ho già detto, quando c'erano i fascisti ero una bambina. Tante cose non le so, mica ai bambini si può raccontare tutto, no?
Però una cosa me la ricordo, Piero: che a chi non era fascista gli facevano la purga. A sfregio. E chi non era fascista un posto di lavoro non lo trovava. Nemmeno se piangeva in greco.
E mi ricordo pure che da noi a Salerno per tanto tempo gli aerei americani non sono arrivati. I bombardamenti si fermavano a Napoli. Mi ricordo che il popolino -la gente semplice- diceva che san matteo da lassù ci guardava e proteggeva e accussì3 a noi di Salerno non ci succedeva niente.
Poi il primo bombardamento l'avemmo il 21 giugno.
A Salerno era già qualche giorno che non c'era più nessuno: erano tutti andati nei paesi vicini a cercare un posto, un riparo: una qualunque cosa che gli aerei da lontano, dall'alto dei loro cieli, non riuscissero a vedere. Una qualunque cosa che non gli facesse gola.
io in quei giorni prima della bombe stavo a mare con le mie cugine e mia mamma -la tua bisnonna, Piero- era in giro a cercare un posto. Un rifugio.
La mattina del 20 giugno mio padre decise che avremmo lasciato Salerno comunque, pure se un posto dove stare non lo tenevamo, perché -tanto- non aveva senso rimanere là. Mio padre decise in fretta e fu irremovibile.
Prendemmo quattro carabattole per uno e ce ne andammo, io ricordo che mi portai appresso dei cerchietti e certi birilli con cui mi piaceva assai giocare. Avevamo le coperte sottobraccio, le buste in mano. Sai quelle persone che si vedono per televisione, ai telegiornali, che se ne vanno da un paese ad un altro? Che scappano? Pure noi eravamo così.
Andammo in un paese vicino, Antessano mi pare che si chiama. è accussì piero, ci sta un posto da qua attorno che si chiama Antessano?
-si nonna, ci sta. Ad antessano ci abita Peppe il figlio di Anna, ti ricordi? E dove avete dormito?

-Alla fine, mia mamma ci portò da un cugino suo che faceva la guardia forestale là e un posto per dormire lo trovammo. La notte però nessuno chiuse occhio, perché si sentivano i rombi degli aerei e lo scoppio delle bombe su Salerno, con tutto che eravamo lontani in aperta campagna. Alla fine, pure san matteo si era arreso.
il giorno dopo, mamma e papà andarono a Salerno per vedere di prendere qualcosa dalla casa. ma la casa era distrutta. C'erano solo cumuli di macerie.
Il comune, ad Antessano, diede a tutte le famiglie bombardate una camera. noi eravamo una famiglia molto numerosa -5 sorelle e 3 fratelli- e il comune ci diede due stanze una cucina e un bagno. Stemmo lì due mesi, all’incirca.
poi mio padre venne a sapere che gli alleati erano arrivati a Salerno...
-e quindi erano praticamente arrivati pure da voi ad antessano no? saranno scarsi dieci chilometri.
-e bello mio, magari, chille i mmericani cammenavan a metri4, avanzavano piano piano e con grande difficoltà. chissà quanti giorni potevano passare mentre che non arrivavano pure da noi. Mio padre decise che dovevamo andare noi incontro a loro. Dovevamo tornare a Salerno.
-e come?
-come eravamo arrivati, no? a per’, piero, a per’5. E nemmanco6 potevamo fare la strada diretta, la più veloce che allà ce steven e tedesc'7. Andammo sopra, montagna montagna, e arrivammo dove sta l'orfanotrofio.
-a canalone?
-bravo, sì, a canalone. mi ricordo che mio fratello Brigido se lo portava in braccio mia mamma. Brigido era di ottobre, stavamo a fine agosto. Ancora non sapeva camminare.
-e a Salerno che facevate?
-ci arrangiavamo, e che dovevamo fare? non tenevamo niente, ci mancava tutto.
Gli alleati si erano sistemati alla prefettura, allo stadio, alla camera di commercio. insomma dentro tutti ‘sti palazzoni. io e le altre bambine come a me andavamo la sera davanti a dove stavano loro e gli dicevamo "Camerat, ciucculat? Camerat, ciucculata?" e loro ogni tanto ci davano certi biscotti tondi, dolci. ma mica ce li potevamo mangiare là per là! nossignore, li dovevamo portare in famiglia, a casa per ...
-appunto nonna, dove vi eravate sistemati? dove era casa vostra, se quella che tenevate prima l'avevano bombardata?
-tu tieni presente dove oggi ci sono i carabinieri, nella salita di via duomo? ecco noi là stavamo. Là avevano sistemato tutti quelli che una casa non ce l’avevano più. tante famiglie, tante persone ammassate. gente di ogni risma.

Di notte gli americani bussavano alle porte. cercavano le signorine, erano ubriachi. Pure le prostitute c'erano in quei posti, tra quella gente. Quella gente che eravamo pure noi. Anche le prostitute. Gli americani bussavano e dicevano "sorella, sistèr, sistèr"...
-ho capito nonna, ma io sto facendo una ricerca sulla resistenza al regime fascista che ha oppresso l’Italia per vent’anni. Su questo cavolo di ventennio che c’è da dire?
-e che ne so io! te l'ho già detto quello che mi ricordo. subito te l'ho detto: se non eri fascista ti facevano la purga, se non eri fascista a faticare non ci andavi. nemmeno se piangevi in greco.
-sì sì. ma qualche dettaglio nonna... tipo il bisnonno, tuo padre, che lavoro faceva? -il tassista.
-e la teneva la tessera fascista?
-nossignore, non ci pensare nemmeno. non ce l'aveva.

io li sentivo ogni tanto, mia madre e mio padre che litigavano. mia mamma -la nonna ida- diceva "vattell a ffà sta tesser,e t vuò mover? e figl r'è tuoi nun ce pienz?"8. Ma mio padre non la voleva la tessera. Nella mia famiglia c'era sempre stata più l'idea del comunismo che del fascismo.
-ho capito...
-ma che hai capito tu? di tutto quello che ti sto dicendo adesso, che hai capito tu? niente, secondo me. Ma va bè, lasciamo stare.
Andiamo avanti.
una volta poi, mio padre ci è andato veramente alla sezione del partito per farsi la tessera "eccomi qua!" gli ha detto a quelli che stavano nella sezione :"e guarda nu poco chi ci sta qua!” –gli hanno risposto- “ti sei deciso finalmente, eh? e ch r'è? non lo riuscivi a trovare nu posto addò faticà, è overo?"9 Insomma, lo presero un po’ in giro. Forse un bel po’ -non lo so questo a nonna- fatto sta che mio padre non arrispunnette manco: giro ncuoll’10 e se ne andò.
-non gli piaceva a essere sfottuto?
-no, a nonna, non ci piaceva. era un tipo sanguigno papà mio, si incazzava. gli venivano subito i cinque minuti...
-ma voi come avete fatto nonna, se il bisnonno non lavorava?
-e figlio mio come abbiamo fatto...in qualche modo abbiamo fatto, no? se mi vedi qua oggi, se tu stai qua oggi con me a chiedermi ‘ste cose vuol dire che in un modo o nell'altro abbiamo fatto. Vuol dire che ce la siamo cavata, no?
-hai ragione nonna, hai ragione tu. Vabbuò per me abbiamo finito: aspetta un momento che spengo il cellulare, così andiamo in cucina e mi fai un bel caffè.
-signorsì.


Legenda
1 dio lo sa ... vede: a malapena, chissà come che...
2 proseguiamo, andiamo avanti.
3 così.
4 gli americani avanzavano lentamente, conquistando a fatica ogni singolo metro. 5 a piedi, Piero, a piedi.

6 nemmeno.
7
di là c’erano i tedeschi.
8 te la vuoi andare a fare questa tessera, sì o no? Che aspetti, muoviti! Non pensi ai tuoi bambini? 9 eh? e ch r'è? ... overo?: Cosa c’è non riuscivi a trovare un posto di lavoro, è vero?
10 non...andò: non rispose nemmeno, girò i tacchi e se ne andò 

cosa vi aspettavate dalla vita?

cosa vi aspettavate dalla vita quando eravate bambini?

Molto brevemente, e mi auspico anche efficacemente: Il “sottoscritto” si aspettava di sviluppare un potere soprannaturale che permettese in qualche modo di ascriverlo alla cerchia dei super eroi.
“il maestro di ineffabile saggezza” ricercava un qualunque potere, senza disdegnarne alcuna manifestazione e tipologia. Possiamo ulteriormente dettagliare la risposta suddividendo lo stadio “infantile” in tre fasi:
-Ricerca del superpotere tramite razionalità: è la fase che domina fino alla primina, in cui “il maestro di ineffabile saggezza” convince il suo migliore amico di allora, Aldo, a ricercare la fantomatica “crema dell’invisibilità”. Tale ricerca che non ebbe, ahimè! la meritata fortuna, veniva praticata dal sottoscritto e da Aldo durante le ore di scuola, secondo una struttura di analisi e sintesi del processo ideativo che nelle prossime righe mi permetto di riportare a beneficio del volenteroso lettore (e ovviamente, anche della volenterosa lettrice).

“il maestro di ineffabile saggezza”: dovremmo cercare il modo per diventare invisibili. Sicuramente il modo per diventare invisibili è costituito da una crema (sillogismo ancora tutto da verificare).

Aldo: si sicuramente (Aldo era un bimbo suggestionabile,) ma come facciamo?

“il maestro di ineffabile saggezza”: non lo so ma iniziamo a ricercare (mostrando così grande propensione per l’empirismo o per ritornare ad Aristotele “e pure le cose che dovremmo conoscere prima di farle le impariamo facendole”etica nicomachea). 

L’attività di ricerca era costituita dal muovere le mani sopra i propri banchi (senza però toccarli) con movimento rotatorio delle stesse che si mantenevano parallele alla piccola scrivania. 
Come ho già detto, il progetto non ebbe la meritata fortuna.

-Ricevimento del superpotere tramite entità terze: si tratta di una fase nebulosa dello sviluppo del sottoscritto in cui si demanda all’esterno il dono di un potere da super eroi. Molto spesso questo potere assumeva i contorni fumosi e videogiocosi del calcio circolare anche detto “l’elicottero” di Ryu e Ken, i due grandi protagonisti di Street Fighter 2. 
nota al margine: durante questa e le successive fasi, ogni contatto viene perso con l’assistente alla fase precedente, Aldo.

-Ricerca del superpotere tramite oggetti:  è questa la fase più pura e matura della nostra saga. Gli agiografi sono sostanzialmente d’accordo nel farla risalire alla prima media del “sottoscritto”. In questo epilogo il nostro vive una fase di panteismo. Abbandona l’idea che possano essere alieni o mostri i portatori di poteri e abbraccia, invece, la tesi che ci siano oggetti fatati in grado di donare i suddetti poteri a chiunque li utilizzi. Questa terza fase è altresì nota come “la fase della tuta della velocità”. Tale momento è imperniato su una tuta di felpa verda, comprata dalla madre dell’ “eroico” al mercato rionale di Salerno. Possiamo notare qui come nella scelta dell’oggetto magico “il maestro di ineffabile saggezza” non si abbandoni a vani simulacri tipo “vans” o “best company” cui inneggiavano le false publicità e le vuote reclame del periodo. Utilizzando questa tuta, riusciva a fare delle corse nei bagni della sua scuola con ritmi e velocità sbaloriditive e se si concentrava davvero sul suo indumento e sul suo significato durante l’atto poteva godere di un’accelerazione supplementare fornita dalla magicità della tuta medesima. Come se fosse antani!

cosa vi aspettavate dalla vita quando eravate adolescenti?
Da adolescenti cambia tutto. Non ci sono più tute che tengano (soprattutto perché sei cresciuto e quella maledetta tuta è passata a tuo cugino più piccolo: bastardo sarai il più veloce di tutti con la mia tuta!), le cose che interessano sono altre. Fondamentalmente le cose che interessano sono le ragazze, ma a loro non interessano certo i “maestri di innefabile saggezza”: troppo aristocratici e intellettuali. È proprio per questa ragione che il “maestro di ineffabile saggezza” abbandona il suo nome, indissolubile legame con la sua schiatta, e come chi meglio di lui fece abbracciando il peso di una croce si sobbarca del fardello di un nome impuro e tanto altisonante quanto vacuo: d’ora in poi chiamatelo “il temibile figo” o “il sottoscritto tenebroso” o, se avete più di 65 anni, “il bullo”.
La domanda “cosa vi aspettavate dalla vita quando eravate adolescenti?” Va, dunque, riformulata come “cosa ti aspettavi dalla vita quando eri adolescente, temibile figo ?” La risposta potrebbe portare con sè alte vette inesplorate di candida poesia. “Il temibile figo” potrebbe con sguardo dolce sussurrare parole romantiche come “Amore” o altre, ma lui sa che voi sapete, e non c’è più spazio per nascondersi dietro un dito. “La verità” chiedete, ormai, a gran voce, come il viandante che ha appena attraversato il deserto, voi qui ed ora avete bisogno della verità del “temibile figo”. E allora, ecco, la verità: auguratevi solo di saperne reggere il peso e di non pentirvi della vostra curiosità. “cosa si aspettava dunque dalla vita il temibile figo quando aveva 16-17 anni e una ragazza la vedeva solo con il cannocchiale?” <<aspettava di perdere la verginità>>. Punto. Puro e semplice. E se avete avuto pure voi 16-17 anni non avete bisogno di ulteriori spiegazioni e dettagli a riguardo. Il “bullo” avrebbe fatto di tutto per liberarsi di quel fardello, ed infatti di tutto fece (ma questa come si suol dire è un altro concorso). 

In un “attimo” siamo quindi giunti alla terza e terribile domanda: 
cosa vi aspettate ora dalla vita?
Pausa. C’è bisogno di un attimo di riflessione seria a riguardo. In primis, è opportuno passare dalla terza alla prima persona perché in questa domanda di vita ci sono “io”. Non più quello che ero da bambino o quello che avrei voluto essere da ragazzo: per dare, quindi, al discorso l’enfasi necessaria e la sincerità che questa domanda suppone, sono obbligato a riferirmi a me stesso come “io”, niente soprannomi o sovrastrutture, per quanto possibile, ovviamente (non sono poi così presuntuoso).
Quindi la domanda è suscettibile di riformulazione e la nuova domanda è “cosa mi aspetto Io dalla vita?”
A me la prima immagine che viene è quella canzone di de gregori quando dice “lo vedi siamo come cani di fronte al mare”. Io immagino un cane con la lingua di fuori, a cuccia sulle zampe posteriori. Lo immagino sul bagnasciuga. “arf arf arf”. Immagino che è notte, e immagino il “mare nero come il vino” di una poesia in greco di cui ho dimenticato il nome ma non questa locuzione. Ripenso a quel cane, “chissà cosa sta vedendo lui”, una lunga distesa di acqua, di onde nere e lente che si infrangono a pochi metri da lui. Prova a scrutare verso l’orizzonte, ma l’orizzonte è nero come il mare. orizzonte e mare uguali. A me prende la vertigine quando penso a questo cane che non sa dove andare, fascinato dal sale e dalle onde nere e lente.

Se posso continuare con l’analisi, vorrei prima chiarire il senso della domanda di cosa stiamo parlando:
-“cosa voglio dalla vita?”  (ciclo spreanzoso)
-“cosa mi aspetto che, in base ai dati in mio possesso (fondamentalmente, in base al mio passato), possa in futuro accadere?” (ciclo predittivo)
-“cosa mi aspetto dalla mia vita, come quando il padre dice al figlio “mi aspetto che tu faccia i compiti di scuola e che poi vada a giocare con gli altri bamabini”? cioè, più o meno, di cosa la vita è in qualche modo in debito con me? “ (ciclo superomistico o di volontà di potenza)

Sono domande piuttosto grosse, se ci si pensa. Permettetemi, allora, di rispondere con un’ironia, un’iperbole tanto stupida quanto necessaria. 
Una moto. 
Mi aspetto, prima o poi, di comprare una moto. Di avere un casco, un giubbino con le spalle imbottite ed una bella, bellissima moto. Non so ancora se una BMW o una Triumph, a volte credo addirittura una Harley, chissà. Di sicuro, però, sarà una moto incredibile: sarà veloce, addirittura più veloce di me quando infilavo la tuta della velocità. Sotto il mio casco e sulla sua sella sarò invisibile nel traffico e nelle autostrade. E non sarò solo: quando mi metterò a sgasare un po’ di più sui rettilinei o a piegare un po’ più pericolosamente in curva, mi troverò un braccio a cingermi lo stomaco, sarà il suo gesto per dirmi che ha un po’ di paura. Non l’avrò persa con te la verginità e magari nemmeno tu con me, ma sono dettagli, “non è vero, darling?”. 

E poi una cosa solo per me, solo per il me di adesso quello che scrive queste parole e che guiderà quella moto: mi aspetto di sentirmi libero.

Buio

È buio qui dentro. 
Ho gli occhi spalancati come gabbiani e non vedo nulla, mille puntolini di colore bluetto mi vorticano davanti, penetrano attraverso i miei occhi e fuoriescono da essi.
C’è buio intorno a me.
Provo a capire.
Aggrotto la fronte.
Penso al buio. Allo spazio.
Alla sua assenza.
I puntini continuano a danzare, spumeggiano il loro mistero. 
Ogni tanto trovo una parete.
Mi disgustano questi muri che definiscono lo spazio.
Allora, vado lì, dove non avverto la loro presenza.
Mi siedo e respiro piano.
Mi collego al mio respiro. A questa prima cellula di tempo. Dentro e fuori. Dentro e fuori. Sento il mio cuore, batte. E il suo tempo diventa quello del respiro. 
Diventa il mio tempo.
Mi frugo nei pantaloni. Dei fiammiferi.
Ne accendo uno.
Avverto deciso, il sapore dello zolfo.
Mi volto indietro.
“ah, sei tu. Vieni.” “Cosa ci facevi qui?”
“osservavo il buio, e tu?”
“cercavo di capire qualcosa”
“che cosa?”
“non lo so”
“non lo sai? Prova a ricordare”
“buio”.
ci sediamo insieme. Il buio ora è poco lontano da noi.
Lo teniamo a bada con i fiammiferi.
Chissà perché poi.
Era così bello, senza spazio. Solo il mio tempo.
Ora sento della polvere.
Le narici mi bruciano dolcemente.
Questa polvere sembra parola.
È dappertutto.
“hai visto questa polvere?”     “già, sembra memoria.”
“non memoria ma parola.” 
 “allora, mistero.”
“chissà.” 
soffio sui fiammiferi. La loro capocchia diventa color cenere. Ma non ne sono sicuro. Non ci sono più colori.
Buio.
Stringiamo le nostre mani. Le sue sono molto più delicate delle mie, nocca contro nocca. La pelle impedisce ogni ulteriore compenetrazione.

Penso.Un uomo è disteso sulla terra. C’è erba.
Poi qualcosa lo trafigge. Si inarca e, istintivamente, mette tutte e due le mani sull’oggetto che gli ha bucato l’addome.
I suoi muscoli guizzano per estrarre l’arma che lo ha offeso. Ma non ci riesce. Il sole rossastro cala lentamente su di lui. Scolorando il suo dolore.
Abbandono quest’ uomo al destino.
Sono di nuovo in me.
Un tamburo. Batte un tamburo. Il suo ritmo si sovrappone al mio. Ma dolcemente, senza sforzo accetto dentro di me questo suono e ora diventa mio.
Non c’è più il tamburo. Ma la mia cassa toracica che rimbomba ad intervalli regolari molto più lunghi di quelli del cuore.

Sono musica.

Mi stanco presto di esserlo. E ordino al tamburo di fare silenzio. Non servono parole. Alzo una mano che non vedo e un suono che non sento, ma che sono, si zittisce.
Ma sono ancora tempo. È colpa del cuore.
Zittisco pure lui. Con un cenno del capo.
Il sangue non  circola più: mi si ferma in corpo. Ho bloccato il mio tempo e posso rimanere uguale a me stesso per l’eternità.
C’è buio intorno a me e buio dentro di me, non meno profondo.
Sono come la cerniera tra universi.
 Lascio la sua   mano. Il resto del suo corpo era già sparito. Non faccio domande perché allontanano le risposte. Saluto . E la sua mano delicata va a ricon
giungersi a lei.
Il cuore è un ribelle.
Ha ripreso a battere.
Divento di nuovo diverso da me stesso.
Ora dentro di me non c’è buio.
E canto.
Canto la parola.
Con voce melodiosa.
Canto la parola attraverso il buio.
Lacerazioni.
Lacerazioni del buio.
Vedo come nervature nello spazio.
È stata la parola. Ha pietrificato l’assenza dello spazio.
La sua essenza.
Sono molto addolorato, non volevo.  
Mi sollevo in piedi. 
Respiro tempo. 
Mi sollevo da terra .
Ora non c’è più sostegno per me. Sono diventato atomo di buio.
Decido che non è giusto.
E lascio il mio corpo.
Così com’è. 
Sospeso.

 Addio. 

27 giugno

Nella notte il mio fantasma emerge
Da onde bianche 
Infantili e sensuali 
Per smettere di pensare e dare parole 
Come incantesimi antichi 
Come rutto di sirene.
Vaga tra le spume e si annega nei gorghi
Il mio fantasma che nella notte emerge

Non dispensa calore l’incavo dei tuoi seni
Ci poso una mano 
Lo lecco con la lingua 
Ci appiattisco sopra l’orecchio
E non un battito io sento

Come corre veloce il cavallo
Corre con l’anima fra i denti 
Al solo sentire una giumenta in calore
Galoppa ed è un fulmine 
primo tra gli stalloni della prateria
Ma più veloce corre 
Con il cuore nel forte petto
Quando sente lo sparo detonare
Dal fucile del uomo
Come corre veloce il cavallo 

quando ha paura 

Il piccolo libro delle risposte stronze

Ci sono dei ristoranti dove quando vai a pagare alla cassa trovi un libro dalla copertina rigida e spessa con sopra scritto in caratteri dorati "il piccolo libro delle risposte".
funziona in modo molto semplice: formuli mentalmente una domanda -NON LA DICI A NESSUNO- e poi apri il libro a caso, la frase che leggi è la risposta al tuo interrogativo. WOW!!!
Le risposte sono tipo: "pensa bene a quello che lasci" oppure "è la soluzione che da tempo cercavi" oppure "le condizioni si faranno favorevoli quando tu lo permetterai".
La solita sbobba insomma.
ma se invece le risposte fossero un po' più aggressive? se "il piccolo libro delle risposte" fosse in realtà "il piccolo libro delle risposte stronze"? 
Ecco alcune risposte che ci si potrebbe leggere dentro. 

Il problema sei tu;

Per quanti sforzi tu faccia, rimarrai sempre e solo un gregario;

Lei finge;

Sei l’ultimo a saperlo;

Non meriti che questo;

Non ti nascondere dietro la sfortuna: sei un incapace;

Forse è vero: potresti crederci di più, ma in fondo il risultato non cambierebbe;

Se davvero fosse stata una buona idea ci avrebbe già pensato qualcun altro;

Ti ci vorrebbe un miracolo;

Se ti umilia e ti offende vuol dire che è giusto per te;

Chi ti è intorno ti deride perché ti conosce meglio di te stesso;

Quante volte riproverai prima di capire che non ne hai la stoffa?;

L’occasione è persa;

Il meglio è oramai alle spalle;

Più in alto arriverai e più violentemente precipiterai;

La tua gioia è un’illusione;

Succederà quando sarà troppo tardi per goderne;

Dovevi pensarci prima ormai non puoi più uscirne;

Cerca almeno di conservare la dignità;

Come hai fatto a scendere così in basso?;

È questo quello che davvero sognavi da giovane?;

È per questo che ti sei sacrificato?;

Non credi che oramai anche parlarne non abbia più senso?;

Sei ancora a questo punto?;

Le conseguenze ti schiaccerebbero;

A questo punto ormai non fa più alcuna differenza;

Anche solo parlarne non ha più senso;

Piaciuto il conto?

io sono campano

io sono campano. i miei genitori lo sono, i nonni lo sono o lo sono stati. I miei parenti abitano ancora tutti nel raggio di 60 70 m. Almeno i parenti stretti, la zia cui raccontavo le ansie di adolescente e che dovevano rimanere segrete ai genitori o i cugini cui ho insegnato matematica e che mi prendevano in giro perchè non sapevo dare calci ad un pallone. 
ci sono molti modi di essere campani. C'è il napoletano indolente e fannullone, c'è il raccontatore di "fattarielli": quelle piccole grandi storie che possono tenere sveglia una casa, un vicolo od un rione a seconda della sua abilità retorica. C'è "o' professore" reso celebre e macchiettaro dai film e dai libri di luciano De Crescenzo, oppure il poeta: quello anonimo che intonò (chissà quando) i versi di canzoni destinati a sopravvivergli in eterno e quello stanco, afflitto da una storia che non cambia mai. Eppoi ci sono personaggi, uomini, che non so "etichettare" bene, forse non ci sono parole precise per farlo, o forse non valeva la pena inventarsi una parola apposta per un unico irripetibile essere umano. Perciò, vi posso dire solo i loro nomi ed ognuno ci veda quello che preferisce: Massimo Troisi, Totò, De Filippo, Pino Daniele (nonostante tutto), Erri de Luca…Di certo non è il più grande dei citati, anche se le metriche tra persone lasciano il tempo che trovano, ma adesso mi viene in mette A. Gatto o meglio i suoi versi: Salerno, rima d'inverno o dolcissimo inverno Salerno rima d'eterno. Se sei di salerno, come me, lo capisci bene perchè e come questa città faccia rima con inverno ed eterno ed è per questo che poi stì tre versi sghembi non te li puoi dimenticare. Te li porti appresso come se fossero una cartolina: davanti, il porto della città fotografato dall'alto della collina di canalone con il campanile del duomo che svetta tra i tetti degli altri palazzi e il mare a bagnare la città e a stabilirne i confini, sul retro, a sinistra, questa poesia al posto di: "saluti e baci da salerno. qui tutto bene. A Gatto" e sempre sul retro, a destra, c'è scritto il tuo nome e l'indirizzo della città che, provvisoriamente, ospita e accresce la tua nostalgia verso l'inverno e verso l'eterno. Mi piacerebbe parlare dei tanti altri modi di essere campani: dei cammorristi, dei ragazzini che lavorano sodo per diventarlo, degli uomini che fanno le mozzarelle a battipaglia, di quelli che vanno in caccia di funghi nell'avelinese o che preparano il greco di tufo nel beneventano, della ferocia e della disumanità di alcuni luoghi del casertano, del cuore che ti si riempie quando vai in motocicletta in costiera amalfitana o prendi il traghetto per andare ad ischia. purtroppo, non sono in grado di raccontarli bene, non li conosco nemmeno tutti, nemmeno quelli che ho citato. Non ne saprei parlare come meriterebbero, so solo che esistono. esistono dentro di me come dati di fatto, come altrettante possibilità che avevo di essere e che ho appena sfiorato. 

ciao ciao

La notte dormo e faccio sogni strani.

La notte dormo e faccio sogni strani.
Sogno di cosce e di uragani.
Di peli e di pozzanghere nere. Della faccia di mia nonna, sovrapposta a quella di mio padre e tutte e due dentro quella di mia madre. Trasfigurate e centrifugate così che i loro lineamenti fondendosi finiscano da assomigliare ad un tonno lesso o ad una maschera africana.

La notte dormo e faccio sogni impossibili.
Sogni di roccia e di alberi alti che crescono verso il centro della terra . Sogni di me che mi alzo in volo. Libero e lento nuoto nell’aria. Capriole. 
Sogni di mostri che mi sorprendono alle spalle e mi bucano la pancia. Sogni di guardie e di ladri con il volto del mio professore di ginnastica delle medie.  
Sogno di quadri che muovono gli occhi contenti o che fanno una “O” con la bocca dipinta e risucchiano tutta la stanza con dentro la faccia di mia madre dentro quella delle guardie e il tonno lesso che ha la faccia della maschera africana e me stesso che li sto sognando.

La notte se dormo faccio sogni animali.
Sogno la musica, la paura, l’angoscia e l’ansia. 
Sogno la penetrazione cruda, irreale o quella oscena e corrotta e tanto indicibile che conviene dimenticarla, svegliarsi al mattino e dire “non ho sognato niente”.

La notte dormo e faccio sogni strani.
Sogno di una donna con la faccia che è un sorso di acqua fresca. Bevo gli zigomi, gli occhi e la bocca corrucciata con una vecchia ferita di herpes. Sogno che parla e più l’ascolto più ancora starei lì ad ascoltarla. Ma quello che si dice nei sogni, quando si è svegli non lo si sente mai e io ignoro cosa mi dice l’acqua che bevo.
Sogno di lei che cammina davanti a me e quando io la chiamo per nome,  si volta e sorride chiamandomi con quel mio nome che anche lei finalmente conosce.
Sogni.

Strani.

tornando a casa (1-6-2013)

Tornando a casa
Non ti ho visto nel cielo luna
Ma so che esisti
Oltre le luci della città
Più su delle nubi gonfie di pioggia
Nel nero buio di stanotte
Tu risplendi luna
Nel cielo 

E nel mio cuore

eh.

Io alle volte penso a quanto poco penso a Salerno.
A quanto poco tempo dedico nella mia testa ai miei amici, alla mia famiglia ai miei ricordi. Come se fossi rinato qui. Rinato senza amici, senza radici senza un io. Con qualcosa dentro di stabile e risoluto, qualcosa che dice vai avanti, svegliati la mattina, vai a lavorare, fai la coda per corso Giulio Cesare, aspetta il verde al semaforo, timbra il cartellino, accendi il computer, cerca di arrangiarti, manda a fanculo chi ti vuole mandare a fanculo, preparati, arrogati meriti, scansa le fatiche, spegni il computer, mettiti il cappotto, rifai la coda, anche se ritorni per via bologna. 
C’è sempre, il traffico. 
C’è sempre perché ce ne sono troppi come me con il cappotto, la cravatta sotto il cappotto, il pantalone con le pieghette, le scarpe eleganti con la suola di gomma perché sennò tutto il giorno quelle con la suola di cuoio sono scomode. Ce ne sono un po’ troppi, che fanno la coda qualunque sia il percorso che abbiano scelto per andare a casa o al lavoro. Stereo acceso sintonizzati su una radio, ma senza troppe attenzione. Nel frattempo si accendono una sigaretta, chiamano con l’auricolare la fidanzata o un fornitore o un cliente, si fermano di malavoglia a dare la precedenza.
Tutti questi sono uomini, vanno a lavorare, guadagnano dei soldini, se li tengono in banca, ci pagano le rate del televisore e la cucina con il top in marmo. Se riescono a fare cinque-sei mesi di risparmi, alla prima occasione se li sputtanano in una settimana con la fidanzata in una località semi-esotica a mangiare frutti di mare e bere vino bianco ghiacciato finché non gli viene male allo stomaco.
Tutti questi sono uomini, e il loro stomaco sembra cedere quando devono fare un presentazione davanti al capo, o al capo del capo, sulle loro attività negli ultimi tre mesi. Devono far vedere come sono bravi a cavarsela, e sudano freddo. La sera prima si girano e si rigirano nel letto, si ripassano il discorso, la mattina dopo al bar, la brioche che mangiano ha un sapore di ansia. Qualcuno di loro però capisce che non è la brioche che sa di ansia, ma la loro bocca. Asciutta, pastosa. Ci fumano sopra una sigaretta, respirano forte e poi piano, forte e poi piano. Visualizzano qualcosa di felice e sereno, pensano a quando avevano dieci anni e stavano a casa con mamma e papà. Le ansie di quei giorni sono troppo lontane, rimangono solo ricordi lievi e felici.

Io a Salerno non ci penso più. 
Salerno è lontana. Tutti i sampietrini del corso vittorio emanuele, la libreria, i bar, la stazione dei treni e quella dei pulmann: è tutto lontano. Non è ricordo, è solo lontano. Questa idea che lo spazio possa essere vinto dallo spirito e dai sentimenti è decisamente troppo romantica. È una bella idea, per carità. Ma forse, è una speranza più che un’idea: come ci piacerebbe che fosse così, se non fossimo costretti sempre al nostro spazio ed al nostro tempo , ma potessimo vivere, avvicinarci ad altri tempi ed altri spazi! Il fatto che sia bello però, non basta perché sia reale. Semplice ed ineluttabile. Qualcuno se ne farà una ragione, qualcuno metterà la testa nella sabbia.
Salerno, e gli ardori giovanili dei miei amici, le associazioni, il ristorante dove lavoravo, le serate a Largo Campo, i saluti e le chiacchiere: come erano noiose allora, come erano ripetitive. Non mi mancano, certo. Ma alle volte ne ho nostalgia, cazzo! Essì che a volte mi mancano. Mi manca la mia vita come era prima, mi manca andare a correre sulla corsia più esterna del Lungo mare, quella più lontana dal mare e più vicina al traffico. Mi manca andare a casa di mia nonna a parlare, mi manca andare a citofonare a tutti i miei amici per sapere che cacchio stanno facendo ed andare a fumare una sigaretta a casa loro chiedendosi tra una sbuffata e l’altra CHE NE SARà DI NOI. Di questi sogni di nebbia e fumo, di queste speranze di cristallo, di questa forza e delle nostre consapevolezze, delle battaglie che abbiamo vinto contro noi stessi e gli altri.

Di tanti che conoscevo non è rimasto neanche uno.
Ma nel mio cuore nessuna croce manca,
Ungaretti ha scritto sti versi (più o meno, cito a memoria) per dire che la guerra li ha fatti fuori tutti, i suoi amici. Non sono quindi autorizzato ad utilizzarli per me. Se li avesse scritti per dire che trasferendosi dal Sud Italia, (che a dispetto di tutta la nostra intellighenzia meridionale rimane ancora un posto arretrato da cui bisogna uscire per avere uno straccio di lavoro un po’ migliore), al Nord aveva perso tutti i suoi amici, allora sarei autorizzato ad usarli anche per me. I miei amici sono Roma, Parma, Napoli, Milano, USA. Non tutti se ne sono andati perché non trovavano lavoro, alcuni se ne sono andati per vedere il mondo, per riuscire a dare una sbirciatina al di là del proprio naso. E hanno fatto bene. Anche io ho fatto bene. Però c’è qualcosa che si perde, qualcosa che si deve dare in cambio. Ne può valere la pena oppure no. Ma c’è un prezzo da pagare. 

Fate vobis.

Torino 22 giugno 2009

Torino 22 giugno 2009
In una serata come questa. 
Quando non sai molto bene chi sei. Una serata che viene dopo una giornata di lavoro. Una giornata di quelle che solo dopo che le hai vissute capisci perché si dice “una giornata grigia”. 
Oggi il grigio lo hai respirato a pieni polmoni da subito, appena ti sei svegliato. E non sapevi se raderti o no. Non sapevi se avevi fame oppure no. Ti sei svegliato, e non sapevi niente. 
Preparare il caffè. Infilare i pantaloni, abbottonarsi addosso una camicia. Un rituale composto di gesti insulsi, grigi. Leggere un libro in tram, temendo che la storia che leggi in quelle dieci fermate sia l’unica che ti capiterà di vivere in tutta la giornata. 
E hai paura per te stesso, per quello che ti può capitare e ancora non sai cos’è, eppure sai che sarà terribile ed imminente e sai anche che non puoi farci niente. A volte, solo a volte, ci svegliamo nel mondo e siamo indifesi e fragili. Annoiati dall’esistenza. A volte, solo a volte, chiudiamo una saracinesca su tutte le possibilità che ci si offrono. Ed è questa la morte di noi vivi.
E poi tornare a casa. Che solo quando ci torni da queste giornate strane capisci cosa voglia dire “tornare a casa come in trance”.
Fermarsi al supermercato ed essere ancora presi dalla noia. Dal disgusto. Montagne di cibo, finto ed imballato nella plastica. Nato dal sangue degli animali, da violenze sulla terra e sugli uomini. E la tua bocca che di lì a poco macererà tutto questo dolore con crudele noncuranza, magari davanti ad un telegiornale dove, magari, sfilano le immagini di disperati che per quel cibo così scontato e semplice nel tuo piatto in ceramica, sarebber invece arrivati a vendere le loro mogli come schiave.
E poi, conversazioni al cellulare, chat su internet. Tutto, pur di sfuggire alla noia di se stessi. Tutto per darsi una possibilità che riempia il vuoto creatosi, non si sa come, intorno a noi. Il nostro, che è un vuoto abissale, infinito, tetro, melmoso, freddo e malvagio. Un vuoto di fango che degenera nelle pance e nelle schiene nostre. Un vuoto che gode di se stesso. Proprio come sarai costretto a fare tu, di lì a poco nel tuo letto. Solo. Alla fine di queste ore che hanno composto un giornata della tua vita, passata via. Volata lontano, fino a ricongiungersi a tutte le tue altre giornate, ormai avvolte a formare quella palla di carta straccia e coperte polverose cui ti aggrappi con forza nei momenti neri in cui il vuoto sta per ingoiarti. 

Passato.

tutto quello che mi serve è un fotografo

“tutto quello che mi serve è un fotografo che documenti le mie serate, le mie cene e le mie malinconie con un qualche filtro instagram o simili per farmi avere più carisma e sintomatico mistero. 
altro che occhiali sole in discoteca, Franco”
Questo status l’ho scritto oggi 24.06.2013 su Facebook.
Poi l’ho riletto e ho pensato “qua sotto c’è qualcosa in più che sono curioso di indagare”.

in fondo la questione è arcinota che riassumerla è tanto facile quanto banale: chi vogliamo prendere in giro con ste fotto fatte su instagram?, a chi vogliamo sembrare più intelligenti, più ubriachi, più fighi, più alti, più magri per chi stiamo confenzionando l’illusione del “più”?
perché c’è bisogno di un filtro che saturi i colori, che li desaturi, che squarci le nuvole del cielo con una luce arancio che il sole non ha mai avuto (ma che forse avrà se l’inquinamento atmosferico proseguirà di questo passo)?
Ci sono due frasi che mi vengono in mente e che vorrei mettere al centro della questione che mi rendo conto essere un po’ capziosa

Frase 1:
La pubblicità ci fa inseguire le macchine e i vestiti, fare lavori che odiamo per comprare cazzate che non ci
servono. [per piacere a persone che non ci piacciono]
(Palahniuk , Fight Club non ho trovato la citazione della parte tra parentesi quadre, forse ricordo male io?)

Frase 2:
Chi controlla passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato
(Orwell, 1984)

Boh, io credo che in fondo le foto che facciamo, la documentazione (manomessa dai filtri) che portiamo a riprova della nostra vita e delle nostre notti da leoni, sia tutto sommato solo pubblicità di noi stessi.
Forse facebook (dove queste foto traboccano da ogni bacheca) è solo una gigantesca serie di vetrine. Dove operano persone che sono negozianti, pubblicitari e sponsorizzatori dello stesso identico prodotto: sé stessi. Dei “one man band” che finiscono per fare pure i manichini dietro queste vetrine. Manichini baciati da secchiate di luce arancio-falsa.
Forse oltre a farci venire l’affanno nell’inseguire macchie e vestiti che non riusciamo a comprare, ci piacerebbe diventare noi stessi un prodotto: “guardami sono figo, comprami”. Vorremmo che la gente facesse lavori che odia per piacere a noi. A noi cui quella gente non piace neanche un po’.
Questa ansia di diventare belli e perfetti l’abbiamo sempre avuta. In qualche modo ha a che fare con come l’uomo gestisce il proprio passato. Qualcosa che secondo me in psicologia si chiama “rimozione”. E se non lo è direttamente, state pur certi che lo si può collegare alla rimozione in poche semplici mosse.
Il problema a far scendere in campo la psicologia  è che prima della fine di questo pezzo diventerete tutti froci. Se invece lo eravate già, diventerete etero. E così per tutte le categorie umane cui appartenete. C’è qualcosa di sbagliato in voi, la psicologia lo sa e ve lo strapperà dal cuore. Che ci volete fare.

La pulsione umana di controllare il passato per dire “si in fondo non era poi così male”, oppure “ti ricordi quanto ci si divertì quell’inverno lì a sciare” c’è sempre stata.
Semplicemente perché la tecnologia non influisce sulle pulsioni umane, ovvero non ne aggiunge di nuove e non ne elimina di vecchie. Magari può dare modo di ingigantirne alcune (il sesso?) e diminuirne altre (non so quali, la tecnologia le ha diminuite fino a non farle percepire più) ma non si crea nulla dal nulla. E noi in fondo siamo nulla o poco più.
Perciò anche davanti al fuoco 1.0 la gente diceva di orsi che non aveva ammazzato, di dei che non aveva sconfitto, di tele che non aveva tessuto e così via.
Semplicemente oggi lo vediamo.
Perché oggi vediamo foto, video, leggiamo frasi di ringraziamento per la serata appena trascorsa dove noi non siamo coinvolti. Noi non siamo seduti intorno al fuoco con quelle persone. Quelle persone sono sedute davanti al fuoco da sole a parlare di se stesse, noi le vediamo dalla capanna vicino e ci chi chiediamo “ma che cazzo sta facendo Tizio?”, “con chi parla Sempronia?”, “perché racconta al vento cose che il vento ed il buio non gli hanno chiesto?”.
È sempre molto facile vedere l’assurdità del comportamento altrui quando non ne siamo in alcun modo impattati. Poi ad un certo punto è il nostro momento di sedersi davanti al fuoco e via come d’incanto tutte quelle foto e video e status diventano importanti e degni di essere raccontati e documentati.

Volendo mantenere un altro po’ questa metafora del fuoco (e poi basta però perché non è che sia granchè) io mi sono fatto l’idea che parliamo sempre a qualcuno e che se sembra che non stiamo parlando a nessuno (perché il vento ed il buio non sono qualcuno vi avverto) allora per un principio di “entia non sunt moltiplicanda sine necessitate” stiamo semplicemente parlando a noi stessi.

Alla fine tutto sto giro, per dire che la pubblicità di noi stessi la facciamo noi stessi per noi stessi. Siamo noi stessi che vogliamo disperatamente convincere di essere più belli, fighi e divertenti di quello che siamo in realtà. Che poi cosa siamo in realtà non vuol dire niente. Nessuno sa quello che è in realtà. Cosa vuol dire “quello che sei in realtà”? il tuo potenziale o quello che hai espresso fino ad ora? O la percezione che hai di te?
Secondo me con questa storia delle foto irrealistiche di facebook/di instagram/di quello che ti pare, lottiamo o compensiamo con una percezione “social” quella che è la nostra percezione “personal” (se così si può dire).
E il modo più semplice per riuscirci è “manipolare” il proprio passato. (frase 2, se vi ricordate).
Che serata ho passato ieri sera? Hipster, caciarona, elegante, romantica, solitaria, malinconica. Ogni foto, ogni frase, ogni cosa può far pendere l’ago verso uno o altri mille di questi piatti. Non c’entra tanto come io la ricordi, il ricordo personale è materia organica (e quindi deperibile e disperdibile tra le nostre sinapsi fino a che non vada a concimare il sottoterra dell’inconscio), ma il ricordo della mia digitale è destinato a rimanere lo stesso nei secoli dei secoli. Uguale a se stesso, corroborato dai commenti degli amici.
Quando vorrò vedere come passavo le serate di dieci anni prima, basterà cliccare e vedere foto la cui evidente inaderenza al reale è ormai caduta in prescrizione. Sarà bastato tirare indietro la pancia per dire “però a quei tempi non ero mica tanto grasso come ricordavo”. Chi se lo ricorda più come eri? Tu ricordi più di aver tirato indietro la pancia in quella foto? Ne sei sicuro? Ricordi di tutte le foto? Certo che no, ci sono loro apposta.
Hai vinto sul tuo futuro.