lunedì 24 giugno 2013

Percival

Avevo sei o forse sette o forse otto anni. Mi piaceva guardare la televisione. Spesso facevano le pubblicità dei giocattoli. Tra i tanti, c’era Percival “l’aiutante robot”, lo chiamavano. Nello spot, seguiva da vicino il suo padrone umano: un bambino che aveva sei o forse sette o forse otto anni come me e che gli diceva autorevole“Percival fai questo, Percival fai quest’altro”. Anche io morivo dalla voglia di comandare a bacchetta qualcuno, proprio come il fortunato e biondo e tronfio coetaneo mio. 
Sotto Natale, la frequenza e l’intensità dell’impulso televisivo alla compulsione di spendere e spandere non risparmia certo i bambini, anzi. Ancora oggi, ogni due/tre spot, almeno uno è dedicato ai nani acquirenti. Io vedevo ripetutamente Percival sfavillare nel bagliore delle immagini del mio televisore. Forse io e tutti i bambini di sei o forse sette o forse otto anni eravamo, prematuramente, inebetiti davanti alla sconcia possibilità di impugnare uno scettro di radio-comando e imporre la nostra acerba legge su chi, negli anni ottanta del secolo XX, occupava il gradino più basso della moderna scala sociale: il robot.
Percival si ripresentava a me con i suoi passaggi in TV la mattina presto prima di andare a scuola, dopo pranzo prima di fare i compiti e nel tardo pomeriggio dopo bim bum bam. E sempre lo vedevo servizievole, attento e scrupoloso, integerrimo nel suo ruolo di servo a circuiti integrati, con la sua voce modulata in frequenza e i suoi arti meccanici, sgraziati ma efficienti nel trasportare pesi e incombenze che finalmente, grazie a lui, non avrebbero più gravato sull’infanzia del mondo libero.
Più si avvicinava il natale, più io stesso ero diventato monocorde e monotematico nei discorsi con i miei genitori:“voglio percival voglio percival voglio percival”. Cos’altro c’era da dire? Niente: “datemi percival, ecco tutto. E se non ne siete capaci, nascondetevi pure nelle dieci profondità della terra chè tanto ovunque cercherete riparo, il verbo della mia maledizione vi stanerà e non vi darà più pace.”
Ma non ci fu bisogno di minacciare così tanto i miei genitori. Si trattava (e si tratta) di onesti lavoratori, persone perbene innamorate della famiglia e terrorizzati dall’idea deludere un figlio. Semplicemente, bastò attendere il 25 dicembre, e la mattina del santo giorno vidi materializzarsi sotto le fronde dell’abete sintetico il pacco dono contenente il mio servo robotico.

Esperire la frizione che insiste tra piano rappresentativo e quello reale, ovvero più banalmente: capire che quello che vedi in pubblicità è diverso da quello che poi ti ritroverai tra le mani, è una sensazione che non può certo definirsi di fastidio, soprattutto se hai sei o forse sette o forse otto anni. Più propriamente si tratta di una delusione, di una ferita lancinante nel petto che si riproporrà altre volte nella vita: quando avremo a che fare con i nostri sogni, una volta che si sono realizzati. Ma la prima volta che la provi, e hai sei o forse sette o forse otto anni, allora non ce la fai. Non la reggi. Io almeno non l’ho retta.

Liberato che ebbi il mio fido vassallo 
dalle grinfie dell’imballo
tosto lo posi in posizione di lavoro 
con voce perentoria che replica non ammette
fosti pagato l’equivalente del tuo peso in oro
e ora se non vuoi che io ti faccia a fette
presto usami la cortesia di seguire la mia signoria
dapprima in bagno a far toeletta
poi di grazia friggi una cotoletta
e alla sera raccontami una dolce poesia
così che morfeo mi accolga tra le sue braccia
e poi domani svegliati all’alba finchè sarà così che di trattarti mi piaccia 

Sapete voi cosa successe? Nulla di tutto questo, ovviamente. Percival non si muoveva al suono della mia voce, in bagno gli dissi “tienimi l’asciugamano” ma le sue braccia rimasero ferme e inermi. L’ultima possibilià gliela diedi allorquando papà disse “piero vai a buttare la spazzatura” e io feci vicino a Percival “lo senti? È per te, e fai presto. Robot.” Percival non si mosse, non si sarebbe mosso mai adesso era chiaro.

La notte io non chiusi occhio, non potevo credere a come ero stato preso in giro dalla pubblicità. Uno stuolo di creativi con gli occhiali a montatura spessa e i vestiti comodi ma eleganti, seduti intorno a un tavolo per capire come prendere in giro un bambino che aveva forse sei o forse sette o forse otto anni. 
Ma se non sapete nemmeno che età avevo -dannati imbroglioni!
Questi pensieri non mi facevano prendere sonno, mi davano sui nervi tutti: la pubblicità, i creativi, mamma e papà “perché avete ceduto così docilmente ai capricci di un bambino? Non avete pensato che forse avevo più bisogno di scarpe e pantaloni piuttosto che di un insignificante ammasso di ferraglia? ma che genitori sareste?”. Era tra questi tormenti che versava affranto l’animo mio, quando ecco che su di me scese benevola l’intuizione divina.
Scalciai via le coperte, di un balzo eccomi in piedi e poi presto in cucina. C’era mia nonna che fumava, non sapevo che fumasse anche di notte. Era la prima volta che vagavo per casa all tre di mattina. “Accussì giovin e già nun pje suonn chiù! Ma che vai facenn i tre a matin?”
Non risposi, nell’oscurità nota della cucina le scoccai uno sguardo che voleva dire pressapoco
“Fatti i fatti tuoi, vetusta antenata. Altrimenti dirò a tutti che fumi. E non solo la tua sigaretta pubblica e tollerata dopopranzo: quella che tutti conoscono, ma anche quella di straforo che succhi avida quando mi accompagni a scuola e quell’altra cui tiri boccate come per salvarti da un imminente soffocamento quando mi riporti a casa, e quella sciocca e voluttuosa quando andiamo a fare la spesa e adesso che lo so, anche questa sigaretta notturna. Sei una Tossica!”
Lei strinse più forte la sigaretta tra le dita come se le mie parole non dette avrebbero potuta farle scappare via per sempre il suo tesoro e in silenzio la sua faccia rugosa rispose “non ho visto niente. Lasciami in pace, satanasso!”

Io corsi lontano, ritornai in camera mia. In mano avevo le forbici prese dalla credenza. Senza accendere una luce trovai la sagoma grigia ed inerme di Percival, con uno scatto aprii il quadro di comando dietro la sua schiena e tagliai di un colpo tutti i fili che mi riuscii di trovare.

1 commento:

  1. Povero Piero! Povere speranze di un bambino!
    Ma poi la nonna l'hai ricattata?
    :)
    M.

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