lunedì 24 giugno 2013

eh.

Io alle volte penso a quanto poco penso a Salerno.
A quanto poco tempo dedico nella mia testa ai miei amici, alla mia famiglia ai miei ricordi. Come se fossi rinato qui. Rinato senza amici, senza radici senza un io. Con qualcosa dentro di stabile e risoluto, qualcosa che dice vai avanti, svegliati la mattina, vai a lavorare, fai la coda per corso Giulio Cesare, aspetta il verde al semaforo, timbra il cartellino, accendi il computer, cerca di arrangiarti, manda a fanculo chi ti vuole mandare a fanculo, preparati, arrogati meriti, scansa le fatiche, spegni il computer, mettiti il cappotto, rifai la coda, anche se ritorni per via bologna. 
C’è sempre, il traffico. 
C’è sempre perché ce ne sono troppi come me con il cappotto, la cravatta sotto il cappotto, il pantalone con le pieghette, le scarpe eleganti con la suola di gomma perché sennò tutto il giorno quelle con la suola di cuoio sono scomode. Ce ne sono un po’ troppi, che fanno la coda qualunque sia il percorso che abbiano scelto per andare a casa o al lavoro. Stereo acceso sintonizzati su una radio, ma senza troppe attenzione. Nel frattempo si accendono una sigaretta, chiamano con l’auricolare la fidanzata o un fornitore o un cliente, si fermano di malavoglia a dare la precedenza.
Tutti questi sono uomini, vanno a lavorare, guadagnano dei soldini, se li tengono in banca, ci pagano le rate del televisore e la cucina con il top in marmo. Se riescono a fare cinque-sei mesi di risparmi, alla prima occasione se li sputtanano in una settimana con la fidanzata in una località semi-esotica a mangiare frutti di mare e bere vino bianco ghiacciato finché non gli viene male allo stomaco.
Tutti questi sono uomini, e il loro stomaco sembra cedere quando devono fare un presentazione davanti al capo, o al capo del capo, sulle loro attività negli ultimi tre mesi. Devono far vedere come sono bravi a cavarsela, e sudano freddo. La sera prima si girano e si rigirano nel letto, si ripassano il discorso, la mattina dopo al bar, la brioche che mangiano ha un sapore di ansia. Qualcuno di loro però capisce che non è la brioche che sa di ansia, ma la loro bocca. Asciutta, pastosa. Ci fumano sopra una sigaretta, respirano forte e poi piano, forte e poi piano. Visualizzano qualcosa di felice e sereno, pensano a quando avevano dieci anni e stavano a casa con mamma e papà. Le ansie di quei giorni sono troppo lontane, rimangono solo ricordi lievi e felici.

Io a Salerno non ci penso più. 
Salerno è lontana. Tutti i sampietrini del corso vittorio emanuele, la libreria, i bar, la stazione dei treni e quella dei pulmann: è tutto lontano. Non è ricordo, è solo lontano. Questa idea che lo spazio possa essere vinto dallo spirito e dai sentimenti è decisamente troppo romantica. È una bella idea, per carità. Ma forse, è una speranza più che un’idea: come ci piacerebbe che fosse così, se non fossimo costretti sempre al nostro spazio ed al nostro tempo , ma potessimo vivere, avvicinarci ad altri tempi ed altri spazi! Il fatto che sia bello però, non basta perché sia reale. Semplice ed ineluttabile. Qualcuno se ne farà una ragione, qualcuno metterà la testa nella sabbia.
Salerno, e gli ardori giovanili dei miei amici, le associazioni, il ristorante dove lavoravo, le serate a Largo Campo, i saluti e le chiacchiere: come erano noiose allora, come erano ripetitive. Non mi mancano, certo. Ma alle volte ne ho nostalgia, cazzo! Essì che a volte mi mancano. Mi manca la mia vita come era prima, mi manca andare a correre sulla corsia più esterna del Lungo mare, quella più lontana dal mare e più vicina al traffico. Mi manca andare a casa di mia nonna a parlare, mi manca andare a citofonare a tutti i miei amici per sapere che cacchio stanno facendo ed andare a fumare una sigaretta a casa loro chiedendosi tra una sbuffata e l’altra CHE NE SARà DI NOI. Di questi sogni di nebbia e fumo, di queste speranze di cristallo, di questa forza e delle nostre consapevolezze, delle battaglie che abbiamo vinto contro noi stessi e gli altri.

Di tanti che conoscevo non è rimasto neanche uno.
Ma nel mio cuore nessuna croce manca,
Ungaretti ha scritto sti versi (più o meno, cito a memoria) per dire che la guerra li ha fatti fuori tutti, i suoi amici. Non sono quindi autorizzato ad utilizzarli per me. Se li avesse scritti per dire che trasferendosi dal Sud Italia, (che a dispetto di tutta la nostra intellighenzia meridionale rimane ancora un posto arretrato da cui bisogna uscire per avere uno straccio di lavoro un po’ migliore), al Nord aveva perso tutti i suoi amici, allora sarei autorizzato ad usarli anche per me. I miei amici sono Roma, Parma, Napoli, Milano, USA. Non tutti se ne sono andati perché non trovavano lavoro, alcuni se ne sono andati per vedere il mondo, per riuscire a dare una sbirciatina al di là del proprio naso. E hanno fatto bene. Anche io ho fatto bene. Però c’è qualcosa che si perde, qualcosa che si deve dare in cambio. Ne può valere la pena oppure no. Ma c’è un prezzo da pagare. 

Fate vobis.

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